L’Eco di Roccasecca

Anno 3, n.17 Edizione speciale monografica Novembre 1998

 

Un altra pagina di grande interesse viene da un vecchio testo di Luigi Colacicchi, dedicato ai canti e alle musiche di Ciociaria, a cui abbiamo già fatto cenno con il testo sulle "cantarelle".

 

I canti popolari ciociari

 

I canti popolari di Ciociaria hanno in comune il substrato gregoriano della melodia e l’estrema sfrondatezza di questa. L’influenza gregoriana si spiega facilmente col dominio secolare della Chiesa di Roma, cui fu quasi ininterrottamente sottoposta la Ciociaria fino al 1870, e con l’isolamento artistico della regione. Il canto gregoriano, radicatosi profondamente in Ciociaria dalle origini, non vi fu mai soppiantato da altre correnti musicali: talchè si può dire che il gregoriano e la musica sacra in genere siano state l’unica musica conosciuta fino a poco tempo fa dai ciociari, e quindi la sola fonte della loro ispirazione musicale. Non crediamo che vi siano altri canti popolari in cui l’impronta del gregoriano si sia mantenuta così chiara. Gli stessi canti della Campagna romana, che sono i più vicini ai ciociari, conservano alcuni caratteri della musicalità gregoriana, ma mescolati sovente ad altri di varia provenienza melodrammatica, operettistica e canzonettistica.

L’opera, principalmente, ha esercitato una forte influenza su tutta la musica popolare.I paesi che ebbero teatri d’opera furono centri attivissimi di irradiazione musicale nel popolo. Arte e romanze passarono con facilità dal palcoscenico alla platea ed alimentarono la fantasia popolare che se appropriò rivivendole con motivi proprii. Si potrebbe dire che se la realtà sonora dei musicisti è la storia della musica, la realtà sonora del popolo italiano è la storia del melodramma.

Ma i ciociari non ebbero teatri di musica, non ebbero corti laiche che facessero della musica. Il teatro musicale dei ciociari fu la Chiesa. Talchè non è esagerato asserire che le prime rappresentazioni teatrali vere e proprie che si son date in Ciociaria sono state quelle del Carro di Tespi portatovi anni addietro dal Dopolavoro. Non solo: oltre a non essere centro di movimenti spirituali profondi, la Ciciaria non fu zona di traffici intensi, di commerci, di industrie che richiamassero genti di paesi lontani, di altre razze e culture. Visse di quel che dava la terra, in scontrosa solitudine. Non attirava nessuno, non voleva nessuno.

Guerre, rapine, semina e raccolti: questo il ciclo della sua storia, vigilata sempre, anche nei periodi più dispersivi, dalla Chiesa.

La Ciociaria fu soltanto paese agricolo, e di una agricoltura esercitata con mezzi rudimentali. Ancora oggi il ciociaro sente, capisce la vita quasi esclusivamente attraverso la terra e i frutti della terra.

 

Suonatori ciociari

 

Quello ciociaro è un popolo appena uscito dall’analfabetismo: popolo incolto, ma filosofo, ignorante, ma poeta. In un popolo come questo, il canto non può essere che modo di vita. Nei ciociari il canto non risponde ad un’aspirazione al bello, ad una vaga inclinazione al decorativo, al voluttuario. Il canto è prima di tutto vita nelle sue espressioni più semplici. E’ la conseguenza diretta di un moto dell’animo, espressione drammatica che scaturisce da un contrasto o da un assenso di sentimenti elementari. Talvolta ha addirittura uno scopo, serve a qualche cosa. Serve ad offendere la madre della fidanzata che ci ha abbandonato (La mamma del mio amore), ad annunciare al padrone l’abbondanza del raccolto in tempo di vendemmia (Accordo), a far chiedere la grazia al brigante Mastrilli condannato a morte (Canzone di Giuseppe Mastrilli), a far sapere quanto soffriamo alla donna che non si cura di noi ( Me’ sò ficcata ‘na spina aglie core). L’amore, il dolore, il fascino della natura suscitano nell’animo del ciociaro echi limitati, di ragione, diremmo, pratica. Di radi il sentimento s’attarda a rimirare se stesso, s’inebria del suo stesso sentire, invoca a sostenerlo nel suo incanto lirico sentimenti affini e limitrofi.

Il canto ciociaro non è dispersivo, ma concentrato. E’ un canto tutto cose, tutta sostanza. Aderisce ai sentimenti, ai fatti come un linguaggio semplice e sbrigativo.

In fondo è un linguaggio esso stesso: un gregoriano in dialetto. Non pochi sono anzi i suoi punti di contatto col dialetto ciociaro. I ciociari sono scarsi di parole: hanno, si dice, la parola difficile, nel senso di uno stento dell’espressione che è tuttora uno stato pieno di grazia e di sapore, pieno di ingenuità. E’ una musica racchiusa in bocci, come un fiore non aperto;musica condensata in nuclei melodici.

I canti ciociari, come in genere tutti i canti popolari, hanno in gran parte una loro destinazione precisa. Alcuni si cantano in primavera (Tempo reale è per l’appunto la primavera); altri in estate, durante la mietitura e la battitura del granturco, altri in inverno e in autunno (L’accordo vendemmiale di Anagni). La Pasqua e il Natale hanno canti propri (la Canzone della Palma, la Canzone dell’Ulivo si cantano alla settimana santa) la Novena di Natale è cantata dagli zampognari - originari quasi tutti della Val di Comino - durante le feste natalizie.

Fra i canti del lavoro lo stornello di Anagni merita particolare rilievo per l’uso che se ne fa al tempo della mietitura. Un contadino appositamente ingaggiato lo canta accompagnandosi con l’organetto mentre le "opere" recidono a colpi di falcetto i fasci di spighe. Il canto incita al lavoro, lo esalta, lo rende più leggero e sopportabile sotto la calura: è come una dolce frusta sui nervi degli uomini che faticano<. Questi avanzano in fila indiana, ma obliquamente per non colpirsi, lungo il campo, e il cantore li accompagna da presso, senza lasciarli un istante. Soltanto quando i mietitori sono giunti al limitare del campo e, prima di proseguire il lavoro, si riposano quando cessa, e il cantore si ristora anche lui.

Un senso di perfetto amore tra gli uomini e la terra emana da questo spettacolo indimenticabile: null’altro che un fatto della vita quotidiana, ma che l’umile stornello trascende e idealizza.

L’organetto è lo strumento che accompagna usualmente i canti ciociari, all’infuori delle pastorali natalizie che si accompagnano con il piffero e la zampogna. Le armonie praticate sono semplici, generalmente si limitano agli accordi di tonica, dominante e sottodominante. Soltanto nei canti lenti, oltre che ad accompagnare, l’organetto eseguisce degli intermezzi solistici interessanti per il ritmo e il giro armonico, ma melodicamente derivati da vecchie canzonette di varia provenienza. In contrasto col canto che è lento, aritmico e come sospeso nell’aria, l’organetto eseguisce dei pezzi svelti, vivaci, fortemente accentati, che col canto non hanno nulla a che fare.

La danza ciociara tipica è il saltarello, ed è accompagnato dall’organetto. Il saltarello, che viene da saltare, generalmente si crede che sia una danza vivacemente saltata. Esso non è neanche rapido e vivace; al contrario si balla su di un tempo allegro-moderato e ritmato. I danzatori, a coppie o a gruppo di tre, quattro, perfino cinque persone, si tengono uniti con le braccia allacciate sulle spalle, i corpi un poco curvi in avanti e le teste che quasi sfiorano al centro, anch’esse leggermente chinate verso terra.

Questa posizione fa sì che i corpi segnano senza scomporsi i movimenti delle gambe, mentre i piedi, usualmente nudi, scivolano sul terreno silenziosamente, dando l’impressione che non se ne stacchino mai. Lo spettacolo che ne risulta è pieno d’eleganza, di dignità, di armonia, di stile.

E’ soprattutto ammirevole il modo in cui i ballerini cambiano direzione quando sono giunti allo angolo della sala o dell’aia. Di solito il cambiamento - lo si vede bene anche nelle moderne danze da sala - genera una rottura del ritmo; è un movimento brusco, talora goffo, che spezza l’unità, la fluidità della danza. Ma i contadini abili, cioè i vecchi contadini compiono la voltata con una morbidezza tale di passi, con una tale levigatezza incrociano i piedi, che il movimento di questi, di rotazione e di rivoluzione insieme, fa pensare al moto geometrico delle bielle e manovelle della locomotiva, esempio di estrema perfezione dinamica.

Il suonatore di organetto spesso balla anche lui il saltarello, addossandosi ai gruppi per eccitarne la danza, rendendola più viva e sensuale.

In qualche paese della Ciociaria Meridionale - come Veroli e Pontecorvo - il saltarello si chiama "ballarella".

 

Un esempio di canto religioso creato in Ciociaria: il "Trittico Musicale" opera del M° P. Rodrigo Di Rocco, dei Carmelitani Scalzi di Ceprano, composto nel 1960 in occasione del 25° dell’Arciprete Antonio Marciano, Parroco di Arce.