Era
sicuramente la "Pietra" più affascinante, la più
ammirata dalle ragazze, ma questo non era poi così difficile,
visto che gli altri quattro "Stones" non risultavano
particolarmente belli. Eppure, dicono i suoi biografi, era
timidissimo.
Il
biondo di Cheltenham, l’elegante cittadina del Kent di cui era
originario, era stato l’artefice della nascita di uno dei gruppi
che avrebbe sconvolto il panorama musicale degli anni ’60. Nel
giro dei piccoli locali in cui si cominciava a suonare il blues
ed il rhythm’n’blues di origine americana si faceva
chiamare Elmo Lewis, in onore di uno dei suoi miti del
blues, Elmore James. Suonava la musica dei negri americani, quel
biondino dalla carnagione bianchissima, rendeva partecipe un
pubblico di neofiti delle sofferte canzoni di Willy Dixon, Muddy
Waters, Robert Johnson e tutti gli altri padri del blues. Anche i
due giovanotti Mick Jagger e Keith Richards rimasero colpiti dalla
personalità e dalla abilità di Brian, al punto di decidere di
fondare un gruppo che avrebbe suonato "quella" musica.
Trovata anche la sezione ritmica nelle persone dei due
"tranquilli" Charlie Watts e Bill Wyman, nacquero i
Rolling Stones, chiamati così su idea di Brian, che suggerì quel
nome volgendo al plurale un brano di Muddy Waters. Dal 1963 alla
metà del 1969, Brian partecipò alle glorie del gruppo che in
notorietà fu secondo soltanto ai Beatles, ma che ebbe la forza di
imporre un diverso tipo di musicalità, ignoto alla grande massa
fino ad allora e limitato ai circuiti dei piccoli club dove
personaggi in seguito leggendari come Alexis Korner e John Mayall
facevano da chiocce ai giovani virgulti che in seguito avrebbero
spiccato il volo verso la notorietà (oltre agli Stones, citiamo
Eric Clapton, Jeff Beck, Peter Green, Jack Bruce, Mick Taylor,
Robert Plant, Dick Heckstall Smith, tra i tanti).
Brian
non solo indirizzò la musica degli Stones verso il blues, almeno
nel primo periodo, ma visse con grande capacità artistica e
spirito innovativo le successive fasi evolutive.
Dopo
aver sedotto i fans di due continenti con le "svisate"
ottenute con la chitarra "bootleneck", si dedicò con
passione ed entusiasmo all’uso di altri numerosi e differenti
strumenti, quali il pianoforte, il dulcimer, l’organo, l’armonica,
la fisarmonica, il flauto, il mellotron, la marimba, e addirittura
il sax in "You Know my name (Look Up the Number)" dei
Beatles, lato B del singolo "Let it Be".
Come
ha osservato my brother Mario nel lunghissimo intervento sul 1968
musicale (in Axe del Settembre 1998) "grazie ad un’invidiabile
rapidità nell’apprendere i rudimenti di diversi tipi di
strumento, arricchiva gli arrangiamenti del gruppo con colori
inediti, allargando l’orizzonte oltre il blues e il rock’n’roll".
Quando
nei concerti del 1967 si spegnevano le luci ed un solo faro
scendeva sull’angelo biondo accovacciato sul "sitar"
che faceva partire le zingaresche note di "Paint it
Black", il pubblico restava per un attimo affascinato, quasi
incantato, prima di esplodere in un entusiasmo corale. Sperimentò
di tutto a livello musicale e tanti si chiedono come sarebbe stato
un suo disco "da solo". Eppure era timido, anche e
soprattutto all’interno degli Stones. Non ebbe mai vita facile
con il duo dominante Jagger-Richards. Tutti i brani furono firmati
dal binomio storico, anche quelli (Ruby Tuesday su tutte!)
in cui era chiara a tutti l’influenza di Jones (qualcosa di
simile si sarebbe ripetuta con colui che lo sostituì, l’altro
biondo timido Mick Taylor, che infatti resistette soltanto cinque
anni nel gruppo). Nel suo stupendo libro di memorie (Many Years
from Now, 1997) Paul McCartney descrive sia le qualità
artistiche e umane di Brian, sia le sue debolezze e le sue paure.
Fa tenerezza il suo aneddoto su quella volta in cui i Beatles in
giro per Londra sulla Rolls affiancarono la Austin di Brian,
urlando al microfono "Accosta, sei in arresto!" e lui
pensò che davvero lo volessero arrestare! Era così, Brian, tanto
affascinante e apparentemente sicuro di sé, quanto fragile nei
rapporti con gli altri. Il music business di fatto lo
stritolò, frustrato nella vita privata (nonostante i vari figli
sparsi per l’Europa non riuscì ad avere un rapporto
sentimentale soddisfacente) come in quella artistica (lasciò i
compagni del gruppo poco tempo prima di morire), pose fine alla
sua breve vita nella piscina della sua villa a sud di Londra.
Ricordo ancora quella mattina di luglio quando lessi della sua
morte in una prima pagina dominata dalle notizie sulla prima
avventura sulla Luna che l’uomo si apprestava a compiere. Brian
la sua Luna non l’aveva trovata, aveva vissuto la sua breve vita
alla ricerca di qualcosa che ancora stava cercando quando la sua
storia si interruppe nel suo anno numero 27. Eppure il vuoto che
ha lasciato nei suoi fans, pur non essendo paragonabile ad altri
illustri estinti come Elvis, Hendrix. Morrison, Lennon ed altri,
è ancora tangibile ed il Fan Club a lui intitolato scopre ogni
giorno nuovi contatti da tutto il mondo. Noi non lo abbiamo
conosciuto personalmente, forse lo abbiamo mitizzato anche troppo,
come spesso succede con i personaggi dello spettacolo, ma abbiamo
sentito forte dentro di noi l’esigenza di inviargli un caldo ed
affettuoso saluto, a 30 anni dal suo addio, ricordandolo mentre
pizzica la sua chitarra nell’interpretazione di "Little Red
Rooster" di Willy Dixon, che anche grazie al suo intervento
"slide", arrivò, tra la sorpresa generale, in vetta
alle classifiche negli USA. Era il novembre 1964 e per la prima
volta un brano "blues" scritto da un bluesman di colore
(sia pure interpretato da bianchi) raggiungeva il N. 1 nella
classifica dei "bianchi"!
Chi
ha amato e ancora ama questa musica non può non renderne merito,
anche in piccola parte, a Brian Jones.
Riccardo
Milan
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