Continuiamo la pubblicazione di una serie di vecchi articoli
narrati in prima persona, che descrivono esperienze di viaggio in paesi ciociari.
Ricordiamo che se qualche lettore volesse inviarci la sua "gita in
Ciociaria", la prenderemmo senz’altro in considerazione.
Meta odierna è Pescosolido, nell’articolo di Vincenzo
Parisella, apparso su "Strenna Ciociara" a cura della
"Associazione tra i Ciociari", edizione 1966.
Il Liri per me finiva a Valfrancesca. I miei ricordi
d'infanzia non si spingevano oltre i pioppi che fanno corona al fiume, oltre il
verdeggiare di campi, macchie, boschetti che si alternano fino alle Compre,
limite veramente estremo delle mie esplorazioni. Al di là di quel confine, dopo
il cotone e la passarella, esistevano soltanto il panorama, i racconti dei miei
e le costruzioni della mia fantasia.
La Val di Comino era laggiù, dove il Liri si nasconde fra i
monti; Balsorano col suo Castello segnava il confine della Ciociaria con gli
Abruzzi, ma soprattutto, da quella parte io sapevo che c'era Pescosolido. Lo si
vede, da Sora, aggrappato a mezza costa dell'anfiteatro di monti, piccolo paese
da presepio, scintillare quando il sole batte. Pescosolido è stato per me
sempre un simbolo. Quel piccolo agglomerato di case, tutte unite da una malta
fatta di umanità, costruzioni strette una all’altra quasi a sorreggersi e
proteggersi vicendevolmente, mi era noto, oltre che per la visione panoramica
che ne avevo per i molti racconti che ascoltavo in famiglia.
Cinquant'anni fa o forse più, anche se le automobili c’erano
già, da Sora a Pescosolido si andava con una carrozza o col break, che
lentamente s’inerpicavano tirati a fatica da ansimanti ronzini. Ma ci si
andava anche a piedi, costeggiando, per qualche chilometro, il mormorante Liri e
quindi addentrandosi in sentieri e tratturi odorosi d’erba. Era la strada nota
ai contadini che scendevano a Sora a vendere ortaggi ed altri prodotti della
terra, ma era anche la strada dei nonni che con la buona stagione andavano a
visitare la loro casa avita.
Lassù, vicino al Castello. Da essi conobbi mille storie di
tanto tempo fa, e da allora Pescosolido divenne per me un simbolo. Il simbolo
dei tempi andati, di un mondo diverso per abitudini, costumi e mentalità che io
localizzavo in quel paesetto arrampicato.
Un giorno o l'altro, mi dicevo, debbo andare a Pescosolido.
Debbo andare a vedere i luoghi in cui si sono svolte tante di quelle storie che
popolavano la fantasia di bambino al posto dei personaggi tradizionali delle
fiabe. Perché la mia fanciullezza non conobbe tanto le fiabe, ma quell’unica,
interminabile fiaba della storia di tanto tempo fa, vissuta dai miei nonni o dai
miei bisnonni, che costituiva il più affascinante dei racconti. Antiche storie
di principi, di guerre, il bandito Chiavone, il terremoto, ed una infinità di
piccoli personaggi che con le loro esperienze di vita, lassù come dappertutto,
hanno costituito quel patrimonio di saggezza popolare che si tramanda di
generazione in generazione.
Ma non mi decidevo mai a far quei nove chilometri, ogni volta
che andavo a Sora, per paura di perdere l’incanto che quelle storie avevano
creato in me. Figure idealizzate ed irreali, di un mondo fuori del tempo, i
personaggi delle storie di Pescosolido avevano il valore di un ideale, come
quelli che, coltivati nella fanciullezza e negli anni della giovinezza,
rimangono immutati ed immutabili di fronte all’evolversi della personalità e
dell'esperienza. Fantasmi nei quali sono interpretati i valori della vita, del
bene e del male, della violenza e della mitezza, della ricchezza e della
povertà, della santità e del peccato. Ma un giorno, in capo all’una dopo
mezzogiorno, saltai in macchina e, senza quasi pensarci su, mi avviai. A metà
tragitto, quando la strada già s’inerpicava, mi voltai a vedere il paesaggio
sottostante: Sora, più grande e sfavillante di come l’avevo sempre creduta,
ed il bel fiume che esce dal verde e s’insinua fra le case, come ad offrirsi
in un opulento e benefico abbraccio. Anche se assai più piccola, cent’anni
fa, al contadino che scendeva dal Peschio, cosi doveva apparire la città, piena
di promesse e di speranze. Quasi volevo riscendere, ma la strada era stretta e
la conversione difficoltosa Giunsi al paese e lo trovai quasi deserto: un
vecchio spingeva avanti il suo asino che arrancava sul selciato facendo su e
giù col testone. Lasciai la macchina e raggiunsi a piedi la Chiesa Madre, ritta
sull'erta ripida di una roccia. Salii la lunga scala e spinsi la porta della
chiesa. Era chiusa. Mi sedetti sul parapetto della scalinata e mi guardai
attorno. La solitudine non rompeva l’incanto della mia immaginaria visione di
Pescosolido. Forse se avessi visto, come ce ne saranno senz’altro, un ragazzo
con la radio a transistor, o transitare un camion, l’incanto si sarebbe rotto.
Ma quel silenzioso meriggio autunnale mi conciliava le reminiscenze. Il vuoto
parve riempirsi di immagini, un po’ confuse nel tempo e un po’ sfocate nei
contorni, ma mi accorsi di godere.
Le case aggrappate l’una all’altra, mute e dignitose,
quella pace degli uomini, seduti forse a tavola per il desinare o fuori in
campagna a lavorare, favorirono il mio abbandono.
Pescosolido è molto antica, anche se non dimostra tutta la
sua anzianità. La tradizione ne fa risalire le origini ai primi secoli dell’era
cristiana, mentre la storia l’accompagna a tutte le vicende della Terra di
Lavoro e del Ducato di Sora. Franchi, Svevi, Normanni, Angioini, Aragonesi,
dominatori italiani e stranieri, si alternarono nel possesso del territorio
attraverso i secoli. Notevoli studiosi hanno menzionato nelle loro opere questi
«passaggi di proprietà». Ma questo l’ho imparato dai libri.
La Pescosolido dei racconti d’infanzia è invece una
piccola comunità, fra l’ottocento ed il novecento, popolata di piccoli
uomini, ma grandi nella mia immaginazione. La Chiesa che ho alle mie spalle,
mentre ammiro il paese, non l’ho mai vista, ma ho ben preciso nella mia mente
il quadro di don Paolo, che vi fu parroco, affaccendato nelle sue funzioni. Il
buon « zi Paolo » dei racconti, che faceva la predica in dialetto ed esaltava
Sant’Isidoro contadino, che era «bianch’e uscie» perché aveva mangiato il
pane di granone, come i contadini del luogo. Era il parroco che sapeva parlare
un linguaggio semplice e sincero, che conosceva tutti e tutti chiamava per nome,
ma era anche lo studioso ed il letterato di grande ingegno. I racconti me lo
fanno ricordare indaffarato per una visita del Vescovo, grande avvenimento per
il paese. E le storie di Chiavone, il famoso bandito che terrorizzava la zona
all’indomani dell’Unità d'Italia. Nel silenzio del borgo. sembra quasi di
udire lo scalpitare dei cavalli della sua masnada che al galoppo fugge dopo la
razzia. Ed i lunghi inverni con la neve, quando i lupi scendevano dall’Abruzzo
e spinti dalla fame si avventuravano fin nelle strade del paese. Interminabili
erano le storie di caccia ai famelici animali, ed una miriade di personaggi,
perfettamente delineati nelle descrizioni ma ormai quasi cancellati nei ricordi,
s’affollano in queste storie di lupi, dove, perenne motivo, s’affaccia la
dura lotta per la sopravvivenza contro le avversità. Una lotta semplice e
coraggiosa, come la gente di queste parti. Talvolta impari, come per il
terremoto Una mattina, cinquant'anni fa, la terra tremò sul far del giorno. Le
case si squarciarono. Voragini s’aprirono, e la popolazione si trovò, nel
breve giro di qualche attimo, nella più angosciosa disperazione. Quelli che
sopravvissero. Più di cento rimasero sotto le macerie e sotto la terra
sconvolta. Ancor oggi, come nei racconti della nonna, il tempo trova nei
pescosolidani una delimitazione: prima del terremoto e dopo il terremoto. Ma è
forse cambiato il paese, dopo la distruzione della furia tellurica. Mi guardo
intorno e credo e spero di no. Dai racconti l’ho sempre immaginato così. Ed i
ricordi si fanno ancora avanti prepotentemente, quasi a saldare ad una realtà
di oggi i fantasmi della mia fantasia fanciullesca.
Nonnò (mio bisnonno), segretario comunale per settant’anni,
che incontra un giovane per la strada, e gli dice «Tu devi fare la visita di
leva», oppure ad una giovane che sta per sposarsi: «Le pubblicazioni sono
pronte». Egli infatti conosce a memoria i visi di tutti i cittadini e sa
perfettamente quali sono le loro situazioni anagrafiche. I fratelli Biancale -
Bernardino, Domenico e Rocco - insigni pittori, che vengono da Sora per
affrescare e decorare la Chiesa. E le famiglie. Quelle di cui ricordo i nomi.
Quella dei Ciccolini, che vanta numerosi ecclesiastici fra i suoi componenti, i
Tuzii, i Matachione e, naturalmente, i Giovannetti, che hanno dato a Pescosolido
ci parroci, sindaci, e per oltre un secolo segretario comunale. E poi i Mariani,
i Ruggeri, i Piazzoli. Tutti nomi, questi, rimasti nella mia memoria perché
legati a vicende e racconti sul passato di questo illustre paese. E poi tante
altre piccole figure, quasi anonime, come il campanaro Francescuccio, noto per
le sue facezie, la balia Crocifissa, e le prefiche, donne che venivano pagate
per piangere ai funerali. In questo scomposto turbine di ricordi, rivivono i
simboli che furono per me legati alle vicende di questa gente. Perché, al pari
delle favole antiche, le storie che mi venivano raccontate avevano una morale,
che oggi mi sfugge, ma che nei suoi principi sento in me, legati all’educazione
ed alla formazione.
E qui mi pare che possa ravvisarsi un contenuto valido nella
storia di tante persone note ed ignote che vissero in questo piccolo, sperduto e
sconosciuto paese ai margini della terra ciociara. Un paese che viveva una vita,
semplice forse, ma densa di contenuto, ispirata a valori morali perenni, ad una
sana e coerente impostazione dei rapporti umani, tale insomma da lasciare
traccia. Tanto che i miei avi, i miei genitori vi hanno trovato da attingere per
le storie da raccontare ai propri figli. La favola vera insomma. Ai personaggi
fantastici delle fiabe, creati apposta per creare un modello di vita, si sono
potuti sostituire personaggi realmente esistiti, sia pur e in tempi andati.
Dubito molto che potremo raccontare ai nostri figli o ai nostri nipoti, storie
del nostro tempo, con un qualsiasi intento educativo.
Forse per questo sono stato contento di non aver incontrato
nessuno nella mia prima ed unica visita a Pescosolido. Non vi tornerò più, per
non rompere questo incanto.