La musica di protesta italiana negli anni ’60 –
prima parteDopo le varie puntate dedicate alla musica "straniera" (metto tra virgolette questo aggettivo perché mi fa sempre sorridere sentirlo usato a proposito della musica, una cosa che secondo me non può avere nazionalità, ma per comodità lo lascio). Il direttore mi ha chiesto gentilmente di scrivere qualcosa sulle canzoni di "protesta" ( altro aggettivo su cui andrebbe aperta una discussione) italiane degli anni ’60 e, aggiungerei, ’70.
La materia è vastissima e si presta ad essere trattata non in mille, ma in un milione di modi che andrebbero ad aggiungersi agli altri innumerevoli in cui è già stato fatto. L’impresa è ardua, ma siccome non posso restare insensibile al "grido di dolore" ( è serata, siamo già al terzo virgolettato) del Direttur allora lo farò a rate e dando un taglio particolare agli articoli. Quale? Diranno i pochi che avranno avuto la bontà di arrivare a questo punto…
Ecco il mio progetto :
Nessun rispetto per cronologie e graduatorie di importanza degli autori.
Nessun riferimento a influenze di musiche di altre epoche o mondi musicali, in quanto queste analisi le lascio ai musicologi più esperti di me ( ci vuole poco).
Nessuna analisi storico – sociologica seria.
Nessuna pretesa di completezza o precisione.
Come spesso mi accade, mi affiderò solo alla memoria e alle mie sensazioni ed emozioni dell’epoca in cui ho ascoltato i brani e di adesso.
Dunque, chi avesse voglia di passare alla lente di ingrandimento quello ce scrivo per scovare errori, omissioni, imprecisioni o quant’altro di simile si risparmi la fatica. Spero solo di non annoiarvi troppo, ma se dovesse accadere il rimedio lo avete a portata d mano : voltate pagina, l’Eco è un giornale di grandi risorse.
Adesso arriva il difficile e non posso più eludere la fatidica domanda : da dove cominciamo ?
Dove mettiamo le mani ? anzi, alla roccaseccana, "ahò, ma addò mitt’ mane aesse? "
Mille volte mille potrebbero essere gli avvii di questa follia, ma io voglio cominciare da uno de più negletti autori e interpreti dell’epoca. Già vi sento in coro (?) "E chi è chiss ? "
Soddisfo subito la vostra curiosità . Gian Pieretti. E voi : "Gian Pieretti ? "Ma come, vai pazzo per Guccini, De Andrè, Nomadi , tanto per citare i miei tre amori musicali italiani più grandi -direte voi – e tu inizi da Gian Pieretti ?
Si, e vi spiego. Allora, anno di grazia 1966. In Italia arriva nientepopodimenoche Jack Kerouac mito di un’intera generazione con "On the road " e compagnia bella, profeta di un’America favolistica e di vite vissute a mille all’ora sulle strade americane. Kerouac si presenta al pubblico italiano in tre storiche sessioni a Roma, Milano e Napoli e chi lo accompagna con la sua musica e le sue canzoni?: proprio lui, Gian Pieretti. Si Gian Pieretti, quello di "Pietre", cantata in coppia con Antoine al Festiva di Sanremo e soprattutto autore dell’indimenticabile "Il vento dell’est" ( e qui trovate la copertina del disco, tratta dalla sterminata collezione privata del Direttur)
Dunque, i libri di Kerouac erano in un certo senso, il manifesto delle insoddisfazioni giovanili d’oltreoceano, la rappresentazione della ribellione ad un mondo stereotipato in cui i ragazzi non si riconoscevano e non volevano integrarsi.
Ecco perché partiamo con Gian Pieretti, nel 1966 in Italia la protesta, almeno in senso diffuso, era ancora di là da venire. Non che non fosse cominciato un certo fermento fra i ragazzi, ma fino al 1966 c’erano solo sporadici atteggiamenti provocatori di reazione al conformismo massiccio che imperava ne nostro paese. Proprio nel 1966 arriva "Come potete giudicar" . Ecco, anche qui già vi sento: "E ti pareva che non c’entravano subito i Nomadi ?.
Ma simpatie personali a parte, quella canzone fu effettivamente quella che meglio incarnò lo spirito di rivolta dei ragazzi dell’epoca, seppure molto delicata nel testo dove anzi si lancia un messaggio di dialogo agli adulti "E se vi fermaste un po’ a guardar, con noi parlar, vi accorgereste certo che , noi non facciamo male mai".
Già, I Nomadi. Un gruppo incredibile, che ormai tutti definiscono storico e dal quale non si può prescindere se si vuole fare solo un po’ di storia del beat e della protesta degli anni ’60. Con la differenza che loro le cose che cantavano in quegli anni hanno continuato a dirle, cantarle, farle, anche nei ’70, negli ’80, nei ’90….. E il mio augurio personalissimo è che continuino a farle anche negli anni duemila.
Sono di parte dite voi? Forse, ma sulla loro coerenza non ci piove. Sempre. Anche quando, come negli anni ’80 nessuno sembrava interessarsi più a loro, tranne quella affezionatissima tribù che ha sempre affollato i loro concerti e seguito il loro cammino. Sempre fuori dai circuiti ufficiali, dalle Tv, giornali, radio, sempre fedeli alla loro Novellara, posto incantato della bassa padana fra Modena e Reggio Emilia. Certo, senza Augusto Daolio non sarebbero ma nati i Nomadi, ma lui anche dopo la sua morte ha lasciato un’impronta forte che non scompare. Lo vedi ancora oggi ai loro concerti, lo vedi guardando e parlando con Beppe Carletti, lo vedi guardando ed ascoltando i musicisti nuovi che, strada facendo, hanno preso con loro. C’è una continuità. Si, certo, la poesia delle canzoni di Augusto è difficile da ritrovare nelle canzoni nate dopo di lui, ma l’intensità, lo stile , è sempre quello. Comunque per raccontare i Nomadi, preferisco partire dalla storia di "Dio è morto".
Una canzone stupenda, guarda caso scritta da Francesco Guccini. Rieti 1967, una delle tante manifestazioni dell’epoca, "Il festival dei complessi". Era ormai scoppiata l’epoca dei complessi, a rimorchio dei Beatles. I Nomadi eseguono dal vivo "Dio è morto", la RAI riprende la serata ma quando trasmettono in registrata i Nomadi sono stati tagliati. Poco dopo a Salsomaggiore, al "Premio per la regia televisiva" i Nomadi cantano di nuovo "Dio è morto" e , di nuovo, la RAI che riprende il programma li "taglia". Si arriva al "Giro sprint" in corso Sempione a Milano. Stavolta la RAI esce allo scoperto e un integerrimo funzionario della TV di stato prima dell’esibizione dice chiaro ad Augusto Daolio "Dio è morto non s’ha da fare. Ne avete tante, cantatene un’altra". Augusto, chiama gli altri, li informa e in un amen in coro dicono agli organizzatori : "Allora non se ne fa niente, noi ce ne andiamo". Per la cronaca intanto "Dio è morto", che è tutt’altro ce sacrilega, veniva adottata dai circoli cattolici, cantata nelle chiese e addirittura trasmessa a più riprese dalla Radio Vaticana. Insomma la gente, la chiesa, i critici musicali, ne avevano colto il messaggio profondo di speranza, forte accanto al rifiuto di una società fatta di ipocrisie e paure. Ma la RAI no.
Si aprì un caso e la stampa e l’opinione pubblica sostenne per lo più i Nomadi contro la censura. Anche Federico Fellini si interessò ai Nomadi e cercò di ingaggiarli per una parte nel film "Non scommettere la testa con il diavolo", ma poi il progettò abortì. Comunque, dopo che anche Paolo VI ricevette i Nomadi durante una sua udienza generale in Vaticano, i discografici imposero che "Dio è morto" passasse con un sottotitolo esplicativo. Esattamente questo : "Se Dio muore è per tre giorni e poi risorge".
Solo così la censura allentò, ma parzialmente, la sua morsa. Ecco, questo episodio è veramente esemplificativo per capire che cosa fosse l’Italia e il panorama musicale di quegli anni.
Ferdinando