La Trilogia di Mario Izzi

 

 

 

Come vi avevamo anticipato sulla scorsa edizione dell’Eco, è stato dato alle stampe l’ultimo libro di Mario Izzi, "All’ombra degli archi". Ebbene, il nostro concittadino, residente ormai da anni a San Lazzaro di Savena (Bo), ci ha fatto la sorpresa di presentare la sua ultima fatica letteraria proprio a Roccasecca, in un incontro organizzato dall’Amministrazione Comunale (vedi foto); questa ’edizione, molto particolare e raffinata, è inserita in un cofanetto comprendente l’intera trilogia aneddotica "Come vivevamo … e ridevamo", "Teatro in Paese" e "All’ombra degli archi" oltre al testo sul lungo autunno del 1944 "Ai margini della Linea Gustav". Una vera chicca imperdibile per tutti gli ammiratori di Izzi e della cultura ciociara in particolare.

 

 

Con piacere pubblichiamo un altro estratto dall’ultimo libro, una storiella intitolata "Ciccio Er Moro".

Ciccio "er moro" così soprannominato perché da piccolo sembrava un moretto "Ciccillo" per g li amici. Personaggio estroso, fascinoso, burlesco, esilarante, che ha tenuto la scena in paese per qualche decennio nella prima metà del secolo XX. Ingegno aperto, battuta pronta, portamento altero e signorile: doti di tradizione familiare insieme con la parlantina chiara e sciolta.

 

Naso alla "Cirano di Bergerac", di tradizione pur essa familiare, resa in lui più accentuata con l'avanzar degli anni da certi rigonfiamenti causati da alcune postulette che qua e là, col tempo, avevano lasciato il segno su quella specie di monumento che tutti i santi giorni si portava avanti - per la verità dignitosamente - e che, nonostante le dimensioni - e forse proprio per quelle - gl'illuminavano il viso, dominandolo, per via delle appariscenti connotazioni di spessore, lunghezza e colore del peperone. Il colore, invero, si poneva in particolare evidenza per il suo rosso rubino intenso, frammisto a trame "bluette" vascolarizzate sulla intera superficie dermica della protuberanza come fosse il delta del Po delle nostre vecchie carte geografiche. Il quadro diveniva attraente proprio per la imponenza del masso centrale e per l'eccezionale contorno della ragnatela venosa, estesa e vistosa, tutta un dedalo di segnetti scuri che scomparivano tutt'intorno, all'interno delle narici, che apparivano perciò anche voraci oltre che visibilmente capaci.

Gestiva un bar in Piazzetta Patamìa quando accadde il fatto che mi accingo a raccontare, ma si trasferì più tardi sulla "piazza longa", all’inizio del Vicolo Paolozzi – là dove ora campeggia il Largo Severino Gazzelloni – nei locali a piano terra del Palazzo Notarangeli, dove lo ricordo sino ai primi anni del secondo dopo guerra. Là gli avventori d’estate dovevano dilettarsi, trattenendosi a bere e a giocare a carte con le "passatelle" e le bevute e gli "olmi", il tutto all’ombra confortevole degli alberi all’epoca ivi esistenti. Le sue risposte – o, se si vuole – le sue battute estemporanee non si contavano ed erano sempre fantasiose e spesso simpatiche. Forse erano considerate tali perché irreali e perciò gradite.

Come quella rivolta a due suoi amici il giorno che s'erano recati alla grotta di "Lourdes", in paese, per controllare quanto di vero vi fosse nelle dicerie in quei giorni diffuse sulla Madonna che "muoveva gli occhi" e "piangeva". Interrogati i due suoi amici sull'esito del sopralluogo ed avuta una risposta negativa infiorata da commenti aciduli sulla credulità del popolino, li liquidò duramente con queste parole: "Siete due antifascisti, non potevate esprimere apprezzamenti diversi …"

O quella rivolta al nipote - Podestà del tempo - mentre manovrava con vistoso accanimento una "Macedonia-extra". Per liberarla dall'intasamento cui l'aveva costretta l'impaccottamento, l’aveva già più volte girata e rigirata tra le palme aperte delle mani per renderla più rotonda e permeabile alla boccata. Si trattava allora di una finezza che i fumatori "chic" - com'era il Podestà - non trascuravano di compiere prima di dar luogo al rito dell'accensione.

Al nipote, che quel giorno si ostinava ad assestare il tabacco mandando avanti e indietro, in alto e il basso, mano e braccio perché la sigaretta potesse riprendere rotondità e sofficità prima di essere accesa disse quella volta: "Sembra che tu stia agitando il termometro prima di misurare la febbre. Riuscirai una buona volta ad azzerare il mercurio?", suscitando gioiosa partecipazione, risate e consensi unanimi dei presenti per l'azzeccata similitudine.

Il suo bar in Piazzetta Patamìa era molto frequentato. Vi passavano il tempo molti giovani e fra costoro alcuni che allora ritenevano di essere " à la page", alla moda a quei tempi seguita non tanto a Parigi o a Milano, ma nei più modesti centri e ritrovi a noi vicini, in certi ambienti ritenuti similari dove sporadicamente qualcuno di loro si recava, magnificando poi, al ritorno, con gli amici le trovate ascoltate, i personaggi conosciuti ed i gusti, ivi apprezzati e condivisi. Uno di questi giovani - che pretendeva di essere chiamato "don" Peppe, appellandosi non so a quale parentado di nobile schiatta - era in realtà a quei tempi pressoché nullatenente: espressione di quelle caste paesane non ancora estinte, di tuttofare - nullafacenti, con aria di nobiluomini boriosi e squattrinati, intenti solo ad apparire diversi da ciò che realmente essi erano, e o sono. Il sunnominato "don" Peppe, infatti, passava gran parte del tempo a curare il suo abbigliamento e portamento e lo faceva con meticolosa dedizione tanto puntuale quanto … inutile. Doppi petti impeccabili, camicie di seta o di lino di Francia illustrate da cravatte appariscenti annodate alla "Scappino" allora di moda, baffetti allineati e profumati, scarpine lucide e comunque mai infangate, come invece capitava di vedere ai piedi dei comuni mortali suoi contemporanei. A renderlo più "chic" ed elegante provvedeva un bastoncino di bambù all'epoca usato da chi avesse voluto assumere nell'incedere - come "don" Peppe pretendeva - più fascino ed autorità. Per questo suo modo di essere e di esibirsi, "don" Peppe veniva spesso canzonato dagli amici del bar, ma egli non se ne adontava, essendo convinto di essere tra i suoi coetanei un vero e proprio fuori-classe" e che le critiche e le canzonature rivoltegli derivassero soltanto dall'invidia ("l’ammidia") dei suoi compaesani.

Un giorno, seduto al tavolo del bar della piazzetta c'era un avventore particolare, fine dicitore, tra l'altro, di quelli che si divertivano a sfottere "don" Peppe per il suo modo di comportarsi. Lo vede scendere dal vicolo, dove abitava, con la solita aria altezzosa da "Gran Muftì". "Don" Peppe quel giorno portava un cappello - un "Borsalino" allora di moda - sulle "ventitré", come suol dirsi, e sfoggiava uno dei suoi vestiti più sgargianti. Tra le dita d'una mano manovrava un bocchino d'avorio sul quale era inserita una "Tre Stelle" profumata che emanava una fumarola come fosse quella del Vesuvio nella recenza d'un'eruzione esplosiva e che egli - "don" Peppe - alimentava con avide, intense ma misurate boccate. Il suo incedere sembrava quello d'un patriarca: elargiva sorrisi saluti e consensi a destra e a manca, ruotando a più riprese il leggero bastoncino che in tali occasioni era parte integrante del di lui abbigliamento. Gratificava del suo sguardo chi incontrava come si trattasse di munifica e provvida condiscendenza, concessa con garbo al momento opportuno al passante di turno.

L'avventore s'accorge della messa in scena ed avverte il gestore del bar dell'imminente arrivo di "don" Peppe, descrivendolo, per essere in linea con l'atmosfera, col suo stile barocco e la voce chiara e tenorile non molto alta ma tale da poter essere udita da Ciccio, che si trovava al momento all'interno del locale. E parla di "don" Peppe come di "colui che avanza col suo pomposo principesco incedere, questa volta accompagnato da un mai visto sussiego".

Il barista, che a sentir "sussiego" gli era parso di capire che l'avventore accennasse ad un ignoto amico in compagnia quel giorno di "don" Peppe, pronto e sicuro esclama: «"Don" Peppe potrà farsi accompagnare pure dal Papa, ma sempre fesso e vanesio resta!».

Precisazione per la cronaca (o l'esattezza storica?).

C'è chi racconta che il barista avrebbe detto, in luogo di "fesso e vanesio", una sola parola, in vernacolo, cioè: "ufane", vocabolo che bene riassume i due concetti.

Altri, invece, affermano che Ciccio abbia pronunciato uno di quei "giudiziosi accostamenti" (già rilevati dal poeta latino Orazio e da lui designati come "callidae iuncturae"), definendo "don" Peppe nient'altro che "Cazzo in pennacchio" e aggiungendo, in linea con la tradizione espressiva dialettale di tali occasioni e, vòlto verso il suo interlocutore: "senza mancamenti per "assignuria"... Ciccio doveva essere ben consapevole del principio etico secondo cui detestare lo sciocco, sia pure con termini sconci, è imposto dall'effetto sano che si tende a conseguire.

Mario Izzi