Mario Izzi ci scrive

Circa una settimana dopo i tragici avvenimenti che hanno colpito New York, ricevevo una bella lettera da parte di Mario Izzi, il quale, con il suo proverbiale stile, consegnava il suo puntuale commento. Allegato alla lettera c’era un dotto saggio sulla "Saràga". Riporto qui di seguito la suddetta epistola, tralasciando solamente gli elementi più personali che poco interesserebbero i nostri lettori.

 

Caro Direttore,

tra la mia e la tua deve correre più di una generazione, ma la diversità sui modi di vivere e di pensare non deve essere molta se per tanta parte mi ritrovo nel tuo "Pifferaio" del n. 34 de "L’Eco". Per tale motivo ti mando anche la mia ultima "Saràga", che nei mesi scorsi avevo anticipato a Gianfranco Molle.

Gli eventi drammatici degli ultimi giorni – che mai abbastanza saranno da tutti esecrati – mi inducono a pensare anche alle responsabilità presenti e passate per l’accaduto, sulle quali per la verità tanti sorvolano. Da parte mia mi limito a constatare che, specie negli ultimi anni, si è molto parlato – non di rado a sproposito – di libertà e democrazia, mettendo la sordina alla giustizia, che pure deve essere alla base dell’una e dell’altra. Ma su cui i tanti "Pifferai" del ‘tempo reale’ continuano (inconsciamente?) a sorvolare. Si è perciò costretti a ripetere il vecchio aforisma latino secondo cui "mala tempora currunt". Sperando che le sventure non siano ancora peggiori nel futuro se si continuerà a seguire il barbaro principio dell’ "occhio per occhio, dente per dente". Mi sovviene in proposito l’antica e sempre valida massima di Confucio, il quale, nelle evenienze simili a quelle in cui ora ci si dibatte, suggerisce che (cito a senso) "al nemico s’abbia sempre a salvare la faccia dalla punizione che l’attende". Chissà se coloro i quali hanno nelle mani le sorti dell’umanità saranno illuminati dalla luce che irradia tale semplice ma antichissima e civilissima verità.

Chiedo scusa delle divagazioni.

Molte cordialità

                                    Mario Izzi.

 

 

La Saràga

(ovvero sia il Sàrago)

Su ben quattro dizionari della Lingua Italiana (Palazzi, Devoto-Oli, Gabrielli, De Mauro) non ho trovato il vocabolo "saràga".

Nemmeno nell’ultimo di De Mauro, che pure è intitolato "Grande Dizionario Italiano Dell’Uso". Solo nel Devoto-Oli è riportato il termine "saraghina", da sarda. Nei detti dizionari, però – tranne che nel Palazzi – si illustra il vocabolo volgare ‘sàrago’ , sostantivo maschile con l’accento sdrucciolo.

Il termine "saràga" è da intendere perciò come un’espressione dialettale che ne cambia anche il genere – diventato femminile – oltre che l’accento – divenuto piano – portato cioè sulla penultima sillaba. Si tratta – com’è noto – del nome che diamo a un pesce saporitissimo, dalle nostre parti conservato sotto sale. Considerate le sue dimensioni – intorno ai 30-40 cm – e la caratteristica di avere carne pregiata, sarago deve essere a mio avviso il nome scientifico, sia pure ‘volgare’ della nostra celebrata "saràga". Per l’esattezza, è un pesce del genere Diplomo, della famiglia Sparidi, degli Actinopterigi, cioè "raggiati" ed "alati" (dalle radici greche "actis" e "ptaron").

Nonostante le evidenti distorsioni sia di genere che di fonetica, ho preferito intestare la presente nota come "saràga". Vuoi mettere, rispetto a "sarago" ….

D’altra parte, ciò che scrivo riguarda il costume e la cronaca della nostra passata vita. Non si possono allora chiamare le cose. Gli oggetti, diversamente da come a quei tempi venivano indicati.

Ho appreso inoltre di recente – per quanto riguarda ciò che viene scritto sulla carta stampata – che una moderna corrente di pensiero americana ritiene che gli scritti che non abbiano dietro una storia e questa, a sua volta, una o più persone, non sarebbero da ritenere cosa seria.

Sarebbero invece da considerare, al più, tentativi di saggistica immaginaria, quando non siano soltanto mucchi di parole accatastate per riempire la carta dei quotidiani, delle riviste e dei libri. Dunque, parole scritte per esigenze meramente editoriali e commerciali.

Condividendo tale giudizio e considerato ciò che sta dietro la "saràga", mi sono sentito più indotto a scriverne usando il termine dialettale, sentendomi con ciò vieppiù garantito , senza tema di affondare nel pantano di una saggistica deteriore. Saràga, ho poi pensato, è anche un termine figurato che si usa da noi per indicare una macchia, una "patacca" di quelle grosse ed estese, difficilmente eliminabili anche con i più potenti e consistenti moderni solventi. Male che vada – mi sono detto – la mia sarà una "patacca" , un’altra tra le tante già comprese nella mia "Anedottica", da tramandare come le altre ai posteri. E tra le tante – ho concluso - è probabile che non sfigurerà, consideratone genere e contenuto

Dunque e perciò la "Saràga".

Venivano a venderle al mercato, il mercoledì. C’era un posto in piazza, all’altezza del Monumento ai Caduti – versante Seminario – dove di solito si allestiva il banco del venditore di pesce. Se ne dovevano smerciare molte se il "saragàro" ingaggiava spesso un aiutante del luogo per soddisfare più celermente le richieste d’acquisto. Nannino Tiberio si prestava alla bisogna, passando egli, nella considerazione paesana, per un esperto di ittica, fresca o conservata che fosse. Mi ricordo un particolare della sua attività di venditore. Aveva una mano affetta da un’artrite paralizzante e devastante, come fosse priva d’un paio di dita, ma non aveva difficoltà a sfilare con destrezza dal contenitore il pesce – fresco o conservato – e, trattenendolo per la coda con le dita residue, lo mostrava ai passanti perché ne ammirassero dimensioni, lucentezza e … freschezza, aiutandosi con la parlantina chiara e sostenuta per invitare i presenti al conveniente acquisto. "Saràghe a otto, Saràghe a otto" (soldi) ripeteva con la voce stentorea, avvertita a rispettabile distanza sulla ‘piazza longa’.

 

L’attenzione dei passanti veniva tuttavia attratta in prima battuta proprio dalle evoluzioni che egli faceva fare al pesce con quella sorta di mano monca, con la quale lo agitava in lungo e in largo facendolo giungere fin sotto il naso del potenziale sperato acquirente. Sul quale però gravava sempre il pericolo della caduta del pesce addosso a causa delle apparenti difficoltà oggettive del venditore nell’articolare convenientemente le sue residue funambolesche dite. Ed era uno spettacolo tutto da godere, e non il solo dei tanti offerti dal nostro antico e ricco mercato.

M’è rimasto impresso, ad esempio, quello che tutti i mercoledì creava il personaggio che noi ragazzi allora chiamavamo "Longa longa Catarì", ripetendo le parole del suo rituale richiamo al popolo dei sospirati compratori. Vendeva delle variopinte strisce di stoffa (le "zigane") che pendevano dalla lunga pertica che egli agitava ai quattro lati dello zodiaco. E gridava, pur essendo solo nello spazio che lo circondava, a guisa di ricorrente e monotona litania: " Uno alla volta, per carità, uno alla volta, non vi affollate, ce n’è per tutti …"

Il mercato di Roccasecca ai nostri giorni; i venditori di svariati cibi sono sempre lì …

Le saràghe sotto sale erano conservate in contenitori di legno. Venivano disposte nei recipienti a raggera (forse per dare segno tangibile al nome greco che portavano …), affastellate a cerchio, l’una sull’altra, dato il loro corpo piatto, come si fosse trattato di fogli ben pressati e stirati. Tra uno strato e l’altro venivano intercalate da carta oleata al fine di conservare, per quanto possibile, freschezza al prodotto e trattenerne il profumato condimento. Ma, trattandosi pur sempre di pesce – che, come dice il proverbio, "dopo due giorni puzza" – la merce in vendita era possibile individuarla e catalogarla già a distanza. A cosa fosse da ascrivere la fortuna dello smercio di un cosiffatto prodotto – ora per la verità poco visibile nei mercati - forse non è poi difficile supporre. Intanto la saràga si mostrava come un companatico unico, saporito e gustoso ed era venduto, tra l’altro, a buon mercato, cioè a prezzi bassi, come s’è visto. Poteva agevolmente sostituire il formaggio quando la si accompagnava al pane. Pretendendo, poi, la mescita di un buon bicchierotto di vino – sempre presente nel desco paesano – lo smercio era assicurato. Già il suo profumo, del resto, apriva lo stomaco, pur se l’appetito a quell’epoca di solito non mancava.

Costituiva anche una sorta di portata esotica nell’entroterra, dove il pesce di mare di rado arrivava e, quando finalmente lo portavano, difficilmente era fresco di giornata. Ripiegare nel succedaneo conservato sotto sale poteva anche dare l’impressione, ai più disponibili e meno esigenti, di degustare una prelibata pietanza addirittura nel luogo in cui veniva pescata …

C’era chi - mi si dice – la trattava con riguardo e considerazione, quando la consumava, avendo introdotto una specie di rito collettivo da portare a termine con scrupolosa oculatezza nel corso della tavolata in cui si presentava. L’informatore non mi ha convinto a proposito della fondatezza delle sue rivelazioni. Le riporto solo per dovere di cronaca, a volte vi fossero altri in possesso delle medesime notizie o di particolari anche inediti, che potrebbero rendere più credibile l’informazione.

Sarebbe stato escogitato da un patito della saràga – mi conferma il mio confidente – un espediente che consentiva ai commensali un rapporto più durevole col pesce come fosse una sorta di gioco a duplice effetto. Infatti, mentre si sollecitava il continuo interesse del commensale verso l’allettante cibo che gli si offriva alla vista, gli si dava pure ad intendere che il boccone più saporito e consistente fosse sempre il … successivo. Per conseguire tale sperato ed ambito risultato si dovevano, però, rispettare alcune regole nella consumazione della portata. I commensali, intanto, dovevano essere tutti seduti sullo stesso versante del tavolo o, se su versanti opposti per l’indisponibilità d’un tavolo lungo, non dovevano essere dirimpettai, faccia a faccia. Se ne capirà la ragione più avanti. Alla trave centrale di legno nel soffitto della stanza – abitualmente la cucina – sovrastante comunque il tavolo, si fissavano uno o più spaghi, a seconda della lunghezza del tavolo e del numero dei commensali, al quale, o ai quali, venivano arpionate una o più saràghe, lunghe e consistenti. Condizione primaria era che la o le saràghe dovessero fluttuare poco più in alto della testa dei commensali e sempre su sollecitazione di costoro, i quali avrebbero potuto toccarla solo con la loro rispettiva fetta di pane affinché si insaporisse in modo da poterne, dopo, gustare il prelibato … odore, non certo il sapore, almeno sino a quando la pare esterna del pesce non fosse stata usurata dai ripetuti toccamenti ed accostamenti nel corso della fluttuazione dello spago sulle loro teste. E’ facile ora comprendere la ragione del divieto dei dirimpettai. In assenza di tale divieto i commensali antagonisti avrebbero avuto modo di fermare il flusso del pesce, smembrarlo più facilmente e gustarne prima la prelibata carne. Col che il gioco si sarebbe in fretta esaurito, svuotandone e snaturandone gli specifici effetti.

Di rado ciò accadeva perché i tentativi di frode, come le deviazioni o gli sviamenti laterali, erano pressoché inesistenti. Ma i mancati toccamenti del pesce a causa degli errati calcoli sul percorso del "pendolo" o degli intempestivi interventi e dei sempre incombenti pericoli di scontro con i vicini di posto erano compensati dalle più frequenti bevute non certo d’acqua, che conducevano inesorabilmente, ancora prima dei naturali tempi previsti, alle solite sbronze. Che costituivano, peraltro, la fine comune, allora, dei pranzi collettivi. Con le tavolate della "saràga" erano però immancabili e generalizzate.

Secondo la mia abitudine, ho sottoposto il manoscritto al riscontro del mio solito coetaneo, il quale, pure apprezzando l’idea del "rito collettivo" per la consumazione della saràga, ha precisato che in realtà si trattava di un’esigenza collettiva propria della vita familiare d’un tempo, afflitta da ristrettezze d’ogni genere, come sempre sopportate con rassegnazione e non di ardo infiorate da ironia e trovate del tipo di quella riferita.

Spiega, però, il mio amico, che la saràga la si faceva pendere dallo spago per farla durare più a lungo nella disponibilità familiare perché, dando spazio al tempo e al desiderio, costituiva la premessa per consumare più pane e meno companatico. Ciò consentiva di riempire più in fretta lo stomaco, dandogli allo stesso tempo l’impressione di averlo fatto con un companatico accattivante e gustoso.

In verità la saràga non riusciva a sostituire il formaggio se non nella diversità del profumo. E, aggiunge il mio amico: spesso al posto della saràga si legava un pezzo di salame o di prosciutto per conseguire lo stesso economico risultato, quello, cioè, di risparmiare, dando l’impressione al commensale di mangiare cibi prelibati.

Se così stanno le cose, motivo in più per averle riferite. L’effetto educativo dovrebbe rafforzarsi e avvantaggiarsene.

Resta da fare una notazione finale al racconto, a mio avviso di non poco conto in quanto sta alla base fi ciò che intenderei scrivere, avendone tempo, a proposito della fantasia dell’uomo. Potrebbe costituire lo spunto, il canovaccio, attorno a cui costruire addirittura la impalcatura per altre collanine …

Si pensi alla fantasia come fonte del progresso, poiché, senza supposizioni anche fantastiche, difficilmente si sarebbe dato luogo alle tante scoperte che hanno contrassegnato la storia della civiltà ed hanno reso meno dura ed incerta la vita dell’uomo sul pianeta Terra. Già la sola rassegna di quelle più sensazionali, e del modo con cui ad esse si pervenne, potrebbe consentire di riempire migliaia di fogli, che avrebbero dietro la storia degli uomini e dei popoli, e, quindi, costituirebbero scritti "seri" secondo quella citata moderna corrente americana.

E le costruzioni filosofiche, non sono anch’esse per tanta parte frutto di immaginazione, ricca, sì, di razionali ragionamenti, ma anche , a volte, di fantastiche figurazioni, complicate e non di rado anche strampalate?

Per non parlare delle tante e varie religioni, credenze, miti, antichi e moderni. Sulle loro rispettive origini, sviluppi e contrastate affermazioni e trasposizioni si troverebbe materia per vere e proprie biblioteche.

Scriverne?

Bisognerebbe vivere per lo meno dieci vite. Mi basta or aver fermato il concetto. Partendo dalla "saràga"!

Ma non è anche questo segno e frutto di … fantasia?

Mario Izzi

(per L’Eco di Roccasecca, San Lazzaro di Savena, Bologna, Settembre 2001)