In margine alla presentazione del nuovo libro di Costantino Jadecola

Luigi Andreozzi:

altro che brigante!

 

Mai come in questo momento suscitano grande interesse le gesta dei "briganti", enigmatici e controversi personaggi che hanno scandito con le loro imprese le lunghe e travagliate tappe della storia. Dei "briganti", chiamati con vario nome, a seconda del periodo, delle implicazioni e delle finalità delle loro azioni, si sono occupati praticamente tutti: storici, romanzieri, poeti e persino registi cinematografici.

Ma da dove scaturisce tale diffuso interesse? Dalle azioni rocambolesche, magari avvolte in un alone di fantasmagorico o dalla efferatezza dei comportamenti?

O non sarà forse per quell’eterno pencolare fra mito e realtà, fra eroismo e canagliesco, fra ardimento e viltà che, da sempre, ha caratterizzato in maniera indelebile le loro azioni? Difficile rispondere compiutamente a tali interrogativi, anche per l’estrema variabilità delle tipologie e degli eventi ai quali si fa riferimento. Una cosa comunque è certa: il fascino per le imprese brigantesche è rimasto da secoli invariato. Tanto invariato da catturare l’attenzione di uno studioso attento, metodico e scrupoloso quale Costantino Jadecola, letteralmente rapito dalla materia che lo ha indotto a superare d’un fiato, come egli stesso confessa, il "voluto ma tormentato disinteresse verso un argomento che intuivo affascinante e con il quale, sino ad allora, avevo consapevolmente evitato qualsivoglia rapporto".

Nasce così "Altro che brigante", un’opera attenta e particolareggiata, che in poco più di un centinaio di pagine, passa in rassegna le "imprese" di Luigi Andreozzi, feroce brigante "di Pastena in Regno", come sottolineato nello stesso titolo. Ma chi è stato in effetti Andreozzi le cui gesta si inquadrano nel cosiddetto brigantaggio post-unitario, sviluppatosi nel meridione d’Italia in seguito al rapido dissolvimento del regno borbonico? La risposta potrà essere acquisita leggendo l’agile ed accattivante esposizione dell’autore che, come suo costume, fa parlare spesso e volentieri i documenti reperiti negli Archivi di Stato oppure le notizie tratte dai rari ed ormai quasi introvabili giornali dell’epoca.

Ad ogni modo, già dal titolo, come sempre accattivante e significativo, si possono avere delle inequivocabili indicazioni sulla tempra del nostro personaggio. Una tempra sicuramente delinquenziale del tutto aliena da quelle implicazioni di carattere politico ed ideologico che pure, in quello stesso lasso di tempo, hanno pervaso il cuore di tanti coraggiosi uomini, accomunati dalla volontà di impedire, con tutti i mezzi, l’asservimento di un popolo alla boria, alla protervia ed all’egoismo della classe dirigente piemontese.

Quegli stessi uomini, meridionali e non, che dopo aver combattuto una guerra già persa in partenza, sono stati bollati con l’epiteto di "briganti" e tali sono rimasti fino ai giorni nostri, secondo un’inveterata tradizione, tanto cara ad una parte ben precisa di una certa storiografia. E se invece la lotta, che è infuriata nelle regioni del sud per un intero decennio (1860-1870), avesse avuto un epilogo diverso? Forse le cose sarebbero mutate radicalmente e, perché no, al posto dei briganti avremmo ora degli eroi, come accaduto altrove. Ma, si sa, da che mondo e mondo, la storia è stata sempre scritta dai vincitori i quali molto raramente si soffermano ad analizzare le ragioni dei vinti. Per fortuna Andreozzi, il brigante di Pastena, riprodotto sulla copertina del libro in un disegno a sanguigna dal pittore Lanfranco Materiale, non appartiene alla categoria degli insorgenti né a quella dei coraggiosi, leali ed intrepidi legittimisti, sopraggiunti da ogni parte d’Europa nel tentativo, risultato poi vano, di impedire il crollo di uno stato e l’asservimento totale ed indiscriminato di un popolo, considerato dagli "amici nordisti" (si legga l’opera, illuminante a tal riguardo, di Alessandro Bianco di Saint-Jorioz) alla stessa stregua di primitive ed incivili tribù dell’Africa nera.

Andreozzi invece va catalogato nella schiera dei delinquenti comuni, dei tagliagole, dei furfanti che spinti dal desiderio di migliorare d’un botto la loro infima condizione, non si astennero dal rapinare, dall’uccidere, dallo stuprare, senza pensare ad altro che non fosse il loro illecito arricchimento personale. Ed in questo contesto, dove la violenza ed il sopruso la faceva da padrone, spesso il più efferato ed il più sanguinario prendeva i gradi di capobanda. Anzi, più si uccideva, più si rubava e più si acquistavano benemerenze e più si conquistava la stima ed il rispetto dei sottoposti. E che Luigi Andreozzi fosse un "capo" lo attestano le tante imprese scellerate compiute alla testa dei suoi uomini, che Jadecola tratteggia con mirabile precisione. Una per tutte la crudele vicenda che portò al sequestro e poi alla barbara uccisione di sei cittadini pastenesi fra cui il dottor De Lellis e il suo giovane figlio Anacleto.

In virtù di cotanta "impresa" Andreozzi entrò di diritto nella cerchia dei più celebri briganti dell’epoca tanto che sulla sua testa fu imposta dalle autorità governative una taglia di ben 20.000 lire per "chiunque consegnerà vivo o morto nel termine di giorni trenta l’infame assassino Luigi Andreozzi". E se la sua breve vita (era nato nel 1840) trascorse fra bagni di sangue, non diversamente accadde per la sua morte avvenuta in quel di Prossedi nel luglio del 1867.

A tal riguardo ci soccorre la cruda ma efficace descrizione del Bartolini che Jadecola riporta nella parte conclusiva del suo libro: "Luigi Andreozzi, intanto che io lo avevo ferito con due colpi di revolver, con uno sforzo disperato si svincolò dai due soldati che lo avevano afferrato e mi si slanciò addosso come una belva. Io avevo gettato il revolver perché scarico dei colpi da me esplosi, ed impugnato un grosso coltello inglese da caccia, che avevo sempre al lato, gli menai con tutta forza tale un fendente da spaccargli il viso in modo che l’occhio sinistro gli schizzò dall’orbita, e dall’immane ferita alla guancia si vedevano le mascelle scoperte con i denti che scricchiolavano in un’estrema convulsione".

Una fine atroce e violenta come spietata e crudele era stata tutta la sua sciagurata esistenza. Fu Andreozzi dunque un brigante?

Sicuramente sì e, come dice Jadecola, si collocò "al top negativo della categoria". Viene proprio insomma la voglia di esclamare: altro che brigante!

 

Fernando Riccardi