Nonostante tutto,

uno sport da amare

 

 

La mia passione per il ciclismo nasce nei racconti. Si, nei racconti di mio padre e di altri anziani del paese, perciò per me il ciclismo e Roccasecca sono due cose che nella mia mente sono inscindibili. E’ come se la vedessi la piazza della stazione con una sola radio montata all’angolo del bar, in alto, come un dio pagano che diffonde “il verbo”.

Intorno tutta la gente che ascolta le storie delle corse dalla voce di Mario Ferretti, mitico radiocronista dell’epoca che ha lasciato nella mente di tutti gli sportivi e non sportivi di allora la famosa frase “un uomo solo al comando della corsa, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.

Insomma un rito collettivo, una passione che riuniva la gente che, senza televisione, immaginava grazie alle parole della radio quei luoghi lontani e leggendari dove i ciclisti compivano imprese memorabili.

L’epopea del ciclismo del dopoguerra è qualcosa che, come hanno scritto e raccontato tante firme illustri, contribuì ad aiutare il paese che usciva dal dramma della seconda guerra mondiale nello sforzo della ricostruzione e della riconquista di una vita normale.

Era un ciclismo davvero eroico, perché fatto di polvere, strade sterrate, biciclette ancora rudimentali e pesanti, molto lontane dalle perfette e ultraleggere macchine di oggi.

 

Era il ciclismo dei gregari che assaltavano i bar per procurare da bere e da mangiare ai propri capitani, con i corridori che si allenavano con i pantaloni alla zuava e i maglioni a collo alto.

E poi i luoghi, le montagne lontane e affascinanti. Il Vars, l’Izoard, il Galibier, il Ventoux, il Gavia, lo Stelvio, tanto per citarne alcune sulle quali è stata fatta la storia di questo splendido sport. Le classiche che attraversano paesaggi di altri mondi, lontanissimi nella realtà vicinissimi nell’anima: La Parigi – Roubaix con la foresta di Arenberg dove il sole non passa mai e ti aspetti da un momento all’altro di vedere sbucare un troll da dietro gli alberi, la polvere nera delle miniere, gli emigrati italiani che accorrono in massa a cercare nelle vittorie dei nostri un attimo di rivincita.

 

 

E poi i ciclisti. Personaggi in genere molto diversi dagli altri atleti, e in particolare dai calciatori. Per lo più contadini fuggiti sulle due ruote al destino della zappa. Però personaggi autentici, genuini, incapaci di imbrogliare il prossimo. Prendete ad esempio Tullio Campagnolo, si quello ormai famoso che ha costruito tutti i “cambi” che ognuno di noi ha avuto sulle sue biciclette. Al Toru de France del 1949 Gianni Brera, al suo primo incarico di inviato della Gazzetta dello Sport gli chiese un parere sui suoi articoli. Ecco come Campagnolo, che seguiva la squadra nazionale italiana con Coppi e Bartali, gli rispose in stretto dialetto vicentino: “Cossa se crede che xe ‘l ciclismo? Zente pedala, zente sta su le rode e zente perde. Lu Gioani, dise tuto questo con qualche peneada de coloe, perché la Francia xe massa bella, e vedrà che i so’ lettori sarà contenti”.

 

Come dire, vecchia saggezza contadina condensata espressa da uno che sapeva quanto la vita fosse dura e si era inventato artigiano e poi imprenditore ella bicicletta. Fatto sta che quell’anno, in quel Tour de France raccontato ogni giorno di un torrido luglio anche dalla famosa radio della piazza della stazione di Roccasecca, la tiratura della Gazzetta dello Sport oscillò fra le 650 mila e le 750 mila copie al giorno.Un successo strepitoso tenuto conto dell’epoca.

Coppi trionfò alla grande letteralmente volando su Pirenei e Alpi e Bartali fu secondo.

C’è un bellissimo libro di Marco Pastonesi, “Gli angeli di Coppi”, che evoca più che descrivere l’atmosfera di quel ciclismo. Vi sono raccolte le testimonianze su Fausto Coppi di tanti ciclisti che hanno corso “insieme, contro, e soprattutto dietro di lui”, come recita l’inciso di copertina. Prendiamo per esempio, Sandrino Carrea fidatissimo gregario di Coppi miracolosamente scampato all’inferno del campo di concentramento di Buchenwald. Uno da 80 chili che tornò dalla Germania che ne pesava 40. “Si dormiva in 360 a Buchenwald in un’unica buca, uno addosso all’altro coperti da un telone. Ogni mattina c’era qualcuno che non si svegliava; io devo la vita ad un cappotto belga , che poteva piovere anche l’ira di Dio, ma non ci passava neanche una goccia d’acqua”. Carrea scampato alla guerra si mette a correre in bicicletta e diventa inseparabile gregario di Coppi, insieme a Ettore Milano.

Un episodio raccontato da Carrea e accaduto nel Giro d’Italia del 1956 rende a meraviglia l’idea di quel ciclismo e di quell’Italia. “Una tappa e un freddo che ancora lo sento nelle ossa e alla fine, in albergo, io e Guido De Santi in bagno. “Cameriera il sapone” e lei “ma io l’ho già portato” e De Santi con la schiuma che gli usciva dalla bocca che per la fame se lo era mangiato”.

Altro episodio fantastico. Giro d’Italia del 1946, con tappa che dovrebbe arrivare a Trieste. Una cosa su cui l’esimio prof. Bertani credo avrebbe molto da dire e da raccontarci, in quanto a Pieris i filo-jugoslavi bloccarono la corsa per impedire che arrivasse a Trieste che volevano staccare dall’Italia per consegnarla  a Tito. Quelli cominciano a sparare, molti corridori tornano indietro ma in venti davvero eroici sfidano le pallottole e salgono con tutte le biciclette sui camion militari degli americani.

Sdraiati a pancia a terra per evitare le pallottole “ .

 

Giordano Cottur, triestino purosangue e amico del prof. Bertani, dice a Torrioni che è il direttore di corsa”io vado avanti anche da solo”. Così a Grignano, superato il blocco, i venti scendono dai camion e la corsa riprende. Vince proprio Cottur staccando gli altri sullo strappetto di via Rossetti in città.

“E’ stato un giorno meraviglioso – ricorda Cottur – la gente aveva le lacrime agli occhi, gettava fiori dalle finestre, il Giro significava l’Italia e Trieste voleva essere italiana”.

 

 

Chiuderei queste note sparse con un aneddoto raccontato da Ettore Milano; leggendolo non ho potuto non pensare alle storie del doping, l’EPO e tutti i veleni chimici che oggi rischiano di uccidere per sempre, oltre che qualche corridore, il ciclismo stesso.

Allora, Tour del 1949. Milano dice a Sergio Zavoli e Mario Ferretti, entrambi giornalisti al seguito, durante la corsa che Coppi ha fame. “fatemi un panino per Fausto e, se vi riesce, anche per me”. Siccome il rifornimento clandestino era vietato, Milano suggerisce a Zavoli e Ferretti di nascondere i panini dietro un certo paracarro, sulla strada, altrimenti Coppi sarebbe stato squalificato. Milano recuperò i panini e lui e Coppi li mangiarono in corsa.

Ecco il commento finale di Milano: “Certo, il salame non era buono come quello di Varzi, ma insomma, per noi era buono come il rosolio!”.

 

 

Ferdinando

 

N.B. Le immagini che corredano l’articolo di Ferdinando sono relative ad un rarissimo 45 giri che narra la storia di Coppi (archivio Eco) ed una corsa ciclistica su Via Piave (archivio Eco)