Da “Piccole Storie di Briganti” di Fernando Riccardi
Più ladro che brigante
Brigante in riposo Litografia (anonimo seconda metà XIX sec.)
Cominciamo la pubblicazione delle “Piccole storie di briganti”, scritte dall’amico Fernando Riccardi, presentate nello scorso numero della nostra rivista. La vicenda con la quale si apre il libro è per così dire “a lieto fine”, vera eccezione rispetto alla media delle situazioni connesse al brigantaggio.
Nel maggio del 1861 il Capitano della Guardia Nazionale Giuseppe Tanzilli, “rimette arrestato” al regio giudice del circondario di Roccasecca, Livio Mancini, diciottenne contadino di Caprile. Assai grave il capo di imputazione: il Mancini era accusato infatti di aver organizzato un “attentato avente per oggetto di distruggere l’attuale governo eccitando i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro lo stesso”.
Appena qualche mese prima l’ex regno di Napoli era diventato, grazie all’impresa di Garibaldi, parte integrante del modello stato unitario. “Franceschiello” era andato via e aveva lasciato il posto a Vittorio Emanuele II. Pur costretto all’esilio il giovane re Borbone non aveva rinunciato a rientrare in possesso del su regno e tentava in ogni modo di destabilizzare il neonato stato italiano. Per alcuni mesi tale azione si concretizzò specialmente attraverso la rivolta delle masse, più nota come “brigantaggio”. Questo fenomeno, pur presente in tutte le province dell’ex regno di Napoli, trovò terreno fertile nell’Alta Terra di Lavoro, territorio limitrofo allo stato della Chiesa, dal quale era diviso dal corso del fiume Liri. Livio Mancini era nato a Caprile di Roccasecca l’otto febbraio del 1843; era figlio di Benedetto e Marianna Di Ruzza, umile famiglia di contadini che dimorava in contrada Campominonno. Il suo battesimo fu celebrato lo stesso giorno, nella chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Grazie di Caprile, dal Reverendus Sacerdos Abbate. Al momento dell’arresto (maggio 1861) non era ancora sposato; qualche tempo dopo contrasse matrimonio con Agata Abbate dal quale vennero quattro figli: Francesca (1865), Loreto (1868), Angelo (1876) ed Eleuterio (1880). Dai verbali del processo si apprende che il Mancini, nonostante la sua giovane età “appare perdutamente avverso all’attuale governo contro del quale aveva cercato di armare varii individui del suo paese, cui aveva consigliato di arruolarsi assieme con lui per le bande reazionarie che si organizzano nello stato romano nell’interesse di Francesco secondo”. I testimoni ascoltati nel corso del dibattimento confermano l’orientamento “reazionario” del Mancini. Andrea Di Rollo, contadino di Caprile, rivela persino di essere stato invitato ad arruolarsi nella banda del brigante Chiavone. A nche il capitano Tanzilli conferma le accuse sovversive sul conto del Mancini: anzi, nella relazione consegnata agli inquirenti, aggiunge che era stato “già celebre ladro e devastatore di campagna ad onta della sua giovane età”.
Infatti la notte fra il 23 e il 24 aprile del 1861, il Mancini, come è negli atti del processo, “rubava un agnello ed una zappa da dentro una casetta rurale in quella campagna (di Roccasecca, nda) appartenuta a Francesco Di Rollo”. Non solo brigante quindi ma anche ladro. Livio, arrestato e rinchiuso nelle carceri di Roccasecca, deve rispondere di due capi di imputazione: l’attività sovversiva mirante a destabilizzare il nuovo stato unitario e le ruberie nelle campagne. E’ accusato inoltre di detenzione e porto abusivo di una pistola, anche se l’arma non viene rinvenuta nel corso della ispezione domiciliare eseguita dai militi della Guardia Nazionale. Nel corso dei vari interrogatori il Mancini respinge con decisione le accuse sovversive; afferma invece di aver consigliato ad alcuni paesani di recarsi nello stato romano “per procurarsi del lavoro e non già per arruolarsi nella banda reazionaria comandata da Chiavone”. Riguardo poi al tipo di lavoro, precisa che la sua intenzione, una volta espatriato nello stato della Chiesa, era quella di impegnarsi nella costruzione della “strada di ferro”. Aggiunge di aver preso tale decisione “perché correva voce che sarebbero arrestati coloro che, come lui, avevan fatto parte del corpo di volontari saccheggiatori, comandati dal colonnello Lagrange”.
Il brigante Chiavone
* * * A questo punto l’autore per chiarire meglio il contesto degli eventi in questione, descrive gli accadimenti che sconvolsero la parte meridionale dell’Italia nel 1860, fino allo storico incontro nei pressi di Teano tra Vittorio Emanuele e Garibaldi. In questa sede, per ovvii motivi di spazio, non possiamo trascrivere questa parte del libro. Ci limitiamo alla descrizione che Riccardi fa dell’esercito borbonico:
Francesco II ordina al generale Luigi Scotti e al barone colonnello Teodoro Federico Klitsche De Lagrange, di marciare in direzione degli Abruzzi con reparti di truppa regolare e con il prezioso contorno di volontari raccolti cammin facendo, la cosiddetta “truppa a massa”. Tra coloro che accorsero sotto le insegne borboniche, attratti dalla possibilità di far razzia e dal soldo regolare promesso, vi è anche il giovane Livio. Pare di capire anzi che il Mancini si trovasse alle dipendenze del Lagrange già sul Volturno, partecipando alle manovre per bloccare i garibaldini di fronte a Capua. Lo stesso Lagrange nelle sue memorie descrive questa masnada eterogenea e variegata che comprende “gente indisciplinata e non atta a fare il soldato che si portavano appresso le mogli che a guisa di sciame di locuste seguivano ovunque la colonna, formando la massima sua calamità”.
Segue la descrizione degli eventi militari fino all’ingresso di Vittorio Emanuele II a Napoli (7 novembre) e all’avvenuto scioglimento della compagnia di Lagrange (il giorno precedente, 6 novembre) dei cui componenti “qualcuno si ferma nello stato romano impegnato nella bonifica o nella ricostruzione della strada ferrata, altri, come Livio Mancini, tornano nei paesi di origine, altri ancora si danno alla macchia, fuggono in montagna ed intraprendono la carriera di briganti.
Ora però è tempo di tornare al dibattimento processuale. Interrogato a più riprese, Livio Mancini tenta di alleggerire la sua posizione chiamando in causa Raffaele Scappaticci, cinquantenne contadino di Roccasecca, abitante in località “Omo Morto”.,
che avrebbe consigliato a lui e ad altri paesani “a volersi scrivere volontario nello stato romano nello interesse di Francesco II lusingando al pensiero della mercede giornaliera che avrebbe avuta, e che gl’indicava di essere carlini quattro”. Sarebbe stato lo stesso Scappaticci a provvedere al “denaro necessario per potersi recare nello stato romano”. Sempre nel corso dell’interrogatorio il Mancini dichiara che “lo impegno del Raffaele Scappaticci a voler che il dichiarante abbandonasse il suo paese era determinato da sue vedute particolari e non già perché fosse lo Scappaticci capace di incaricarsi di affari direttamente o indirettamente riguardassero il governo, verso del quale si è mostrato sempre indifferente”. La versione fornita dal Mancini non convince gli inquirenti; tutti i testimoni chiamati in causa affermano che “Raffaele Scappaticci mostra sentimenti favorevoli all’attuale governo non avendo dato occasione di far pensare male di lui”. Del resto, come riconosciuto unanimemente, lo stesso Scappaticci godeva di “pubblica buona fama”. Il 27 giugno del 1861, la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro, adunatasi a Santa Maria, presieduta dal giudice Fabrocini, “a voti uniformi ordina che pel primo carico (nda: l’attentato contro il Real governo) gli atti si conservino in archivio e che per tal reato il Mancini sia provvisoriamente liberato dal carcere”. Nel corso del dibattimento processuale infatti “le prove raccolte contra il Mancini non erano state sufficienti per tradurlo in regolare giudizio”. Si tratta, come si può intuire, di un sostanziale proscioglimento per mancanza di prove. Al contempo però il Mancini continua a rimanere “in legittimo stato di arresto per lo reato di furto” perpetrato nell’aprile del 1861. La vicenda processuale si conclude definitivamente il 23 agosto dello stesso anno quando la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro, presieduta sempre dal giudice Fabrocini, si riunisce a Santa Maria per giudicare il reato di furto. La sentenza condanna “Mancini Livio alla pena di 5 giorni di detenzione ed al pagamento delle spese di giudizio a favore del Real Tesoro liquidate in ducati 24,47”. Il Mancini quindi è condannato soltanto per il furto nelle campagne di Roccasecca; niente invece gli è imputato riguardo alla sua presunta attività cospiratoria e di brigante.
La Legge Pica
Evidentemente la sua partecipazione agli eventi era stata così marginale che gli inquirenti non riscontrano elementi certi di reato. Ed in un periodo in cui non si andava tanto per il sottile coon i briganti e con i manutengoli (spesso e volentieri si veniva fucilati sul posto solo in base a sospetti, delazioni o a un determinato tipo di abbigliamento), la vicenda di Livio Mancini può essere considerata una fortunata eccezione. D’altro canto, e ciò si evince a piene mani dal dibattimento, egli aveva preso parte alla spedizione abruzzese di Lagrange, contro i reparti garibaldini. Il che è riferito non solo da testimoni ma è ammesso dallo stesso Mancini. Si può dire quindi che i giudici, nei suoi confronti, furono più che magnanimi. Se fosse stata in vigore la legge Pica (pubblicata il 15 agosto 1863, nda), la sorte del Mancini sarebbe stata sicuramente segnata. Invece, grazie anche alla sua giovane età, aveva appena 18 anni, riuscì a cavarsela a buon mercato. Anzi, ad onta dei suoi turbolenti trascorsi giovanili, riuscì a campare a lungo: si spense infatti a Roccasecca, all’età di 74 anni, il 6 febbraio del 1917, mentre l’Europa veniva segnata dal sangue di quella grande catastrofe che fu il primo conflitto mondiale.
Fernando Riccardi
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