Una recensione di Gianni

 

Il Canto del Cigno

 

 

 

È la prima biografia uscita sul mitico centravanti del Olandese. L’autore ha dato alla sua opera un taglio molto particolare, scegliendo di tralasciare l’elencazione pedante di dati e cronologia (se non in un’appendice finale) e di non ricorrere al contatto diretto con l’interessato, infatti non ha mai parlato con lui.

Dimostra di essere comunque penetrato a fondo nell’universo di Van Basten. L’ha fatto grazie soprattutto a una speculazione filosofica che ricorre,fino a diventare un’ossessione, in tutto il libro, quella, cioè, che Marco Van Basten rientra di diritto, anzi partecipa fattivamente all’architettura di una categoria di pensiero: LA BELLEZZA.

Tutto ciò che Van Basten ha fatto sul campo di gioco è stato talmente bello da trascendere ed eccedere la materia.

 

 

 

Il ritratto che l’autore compie di Van Basten lo raffigura come un talento difficile da decrittare, di difficoltosa lettura; Van Basten nel mostrare il suo talento, privilegiava l’assenza e la sottrazione, alla sovraesposizione del proprio talento all’invasione dell’immaginario con una continua presenza.

Si può affermare che la grandezza più inarrivabile di Marco Van Basten sia stata la semplicità e l’eleganza – quasi innaturale- con cui compiva gesti tecnici ed agonistici di una difficoltà specifica elevata. Pensiamo alla “semplicità” con la quale Van Basten ha continuato a giocare a pallone, nonostante il dolore infernale che gli poteva dare in certi momenti la sua martoriata caviglia destra. Nello sviluppare il ritratto di Van Basten l’autore compie sagacemente un paragone con Gullit e la sua immagine donchisciottesca, pantagruelica e ridondante.

Un grandissimo ammiratore, anzi direi adoratore di Marco Van Basten è stato Carmelo Bene, che vide in lui l’espressione della forma calcistica pura. Degno di nota l’epitaffio che Bene dedicò a Van Basten nel commemorane il ritiro:<<il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora e mai si estinguerà. Il più grande di tutti: VAN BASTEN>>.

 

 

Sul grande palcoscenico mediatico che da anni è lo sport, Scanzi individua uno sportivo che è stato il perfetto coprotagonista di Van Basten: Stefan Edberg, (il quasi coetaneo tennista svedese, classe ‘66 Stefan, classe ‘64 Marco), dal talento principesco della stessa pregiata qualità del centrattacco rossonero.

 

 

Come Van Basten, così Edberg ha privilegiato una rappresentazione estetica del proprio gioco nel quale la bellezza del gesto ha sempre rivestito la massima importanza, senza per questo scalfirne l’efficacia.(tanto per capirci l’autore del gioco più raffinato del tennis del dopo Mc Enroe è stato vincitore di due Wimbledon e due U.S. Open, che è come dire due Coppe dei Campioni e due Mondiali!). Il tennis di Edberg era fatto di gesti eleganti, ariosi: la sua volée di rovescio si potrebbe paragonare ad una pennellata di Chagall e il suo muoversi leggero sul net era in tutto e per tutto un vero passo di danza.

Proprio come Van Basten sembrava danzare sulle sue caviglie di cristallo, e non a caso uno dei soprannomi del Cigno di Utrecht fu proprio Nurajev. Nel rincorrersi di somiglianze sia Van Basten sia Edberg hanno concluso la carriera precocemente, a 31 anni Marco a 30 Stefan, ma entrambi era già degli ex circa tre anni prima dell’addio ufficiale.

Continuando a scorrere la biografia troviamo anche concessioni ad un sottile filo d’ironia; accade quando Scanzi definisce milanista tutto ciò che è bello ed elegante (Edberg, la nazionale di calcio olandese), viceversa determina come interista tutto ciò che è gretto ed efficace (il tennista tedesco Becker, la nazionale di calcio Tedesca). L’autore poi illustra anche il tormentato rapporto tra Van Basten e Sacchi (memorabile lo scontro tra i due quando il giocatore alla fine dell’allenamento voleva dare libero sfogo alla sua fantasia organizzando delle sfide con Gullit e Rjikaard e Sacchi glielo impediva).

 

Comunque siano andate veramente le cose, segnaliamo come negli ultimi tempi, complice forse il rilassamento emotivo di cui ora è preda, a Sacchi ogniqualvolta gli nominano Van Basten gli si inumidiscono gli occhi e mormora solo <<era un grande, era un grande>>.

Per chiudere riprendo una citazione di Philip Roth riportata da Scanzi:<<Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza>>, e la bellezza di Van Basten <<esigeva disarmo e adorazione>>, chiosa l’autore.

 

 

A distanza di 9 anni dal ritiro ufficiale e definitivo di Van Basten rimangono negli occhi gesti e gol. Cito all’impronta: l’assist a Rijkaard, una piroetta autentico passo di danza e passaggio millimetrico al compagno di squadra nella finale di Coppa dei Campioni contro il Benfica del 1989, il gol a Dasaev nella finale dell’europeo del 1988, prodigio di semplicità letale quel tiro balisticamente perfetto, il poker al Goteborg nell’autunno del 1992, che rappresentò il Crepuscolo, l’ultimo atto “BELLO” di Van Basten. E il giro d’onore effettuato a San Siro nell’agosto del 1995, prima della disputa del Trofeo Berlusconi. Van Basten, che aveva annunciato il suo ritiro pochi giorni prima, indossava jeans e un giubbino di renna. Inizialmente la sua corsa sembrava impacciata, ma poi divenne fluida, alzò il braccio nel suo tipico modo di quando esultava dopo aver siglato un gol; tutto lo stadio gli tributò un’autentica interminabile, commossa standing ovation: si stava congedando il centravanti più forte di tutti i tempi. Il canto del Cigno, per l’appunto.

 

G.S.