In esclusiva per L’Eco di Roccasecca una anteprima assoluta
Un’anticipazione del libro “STRAPAESE” di Osvaldo Izzi nell’introduzione di Mario Izzi
Il “giovin” nipote Mario Izzi si propone di ristampare – si spera a breve - un libro di suo “zio Osvaldo” ed invia all’Eco di Roccasecca tale esclusivo documento in anteprima mondiale. Nella lettera che accompagnava il plico Mario risponde anche, con la proverbiale arguzia, alla nostra missiva inviata unitamente alla sua copia dell’Eco Numero 50, esortando altresì i “collaboratori” ad un più continuo e solerte impegno. Il Direttore non può che ringraziare e condividere! “Caro Riccardo, il n. 50 è arrivato il giorno 5 del mese di maggio – 5° - dell’anno duemila 5. Un ottimo auspicio e per il tuo 50° (che ti auguro di triplicare!) e per la ristampa del vecchio libro di mio zio Osvaldo – STRAPAESE - del quale ti avevo scritto tanto tempo fa, inviandoti anche qualche rigo, credo di ricordare, dell’unica copia rimastami e di cui mi servo per la ristampa. E dato che “l’Eco” è depositario delle mie primizie, ti unisco la presentazione già pronta per la pubblicazione “virtuale” in attesa dei “quatrini” per quella reale. Spero che le ragioni che mi inducono alla stampa siano condivise. Tra giugno e luglio prossimo toccherà alle RIME ITALIOTE: un insieme di circa 200 pagine (!) relative a composizioni d’una trentina di anni fa ormai arrugginite e probabilmente “incomprensibili”. Mi auguro che i collaboratori “in sonno” si sveglino e ti diano una mano perché “L’Eco” continui ad essere “udibile” nel mondo dei secoli e per i secoli …”
Pubblicato nel 1962, STRAPAESE ebbe poca o nulla risonanza. Avrebbe attirato forse più attenzione col sottotitolo, ora aggiunto, “IL TENENTE OSCAR TRA LE SUE DONNE”, annunciandone già la copertina ambiti e limiti. Tuttavia, convinto che il libro costituisca la prova sia pure indiretta di come si vivesse nel borgo intorno a cento – o poco più – anni or sono, e che si tratti, perciò, di documentazione storica che non meritava d’andar perduta, ho deciso di procedere alla ristampa. L’ambiente che fa da corona alle vicende narrate dal giovane protagonista del racconto, come e perché esse nascano, si sviluppino e si concludano, è bene rappresentato da ciò che lo stesso autore ritiene di dovere già all’inizio anticipare, quando accenna a R. (ROCCASECCA, in tutta evidenza), il paese di RAIMO e MARIUCCIA, da poco sposati, personaggi intorno ai quali si intrecciano i primi snodi delle vicende esposte. Vicende da considerare nient’altro che scorci autobiografici dell’autore, attribuiti appunto ad Oscar – suo pseudonimo – rampollo esuberante della famiglia IODICE, nucleo benestante del paese che aveva fatto fortuna grazie alla intraprendenza ed al saper fare di un suo capostipite, LEONE “ammirato dal popolino, odiato dai galantuomini”. Così egli, infatti, introduce i suoi personaggi:
“Raimo era un contadino, sanissimo, biondo e di bell’aspetto, si era sposato da poco tempo con Mariuccia, una forosetta bruna di carnagione, sana anche lei, vivace ed intraprendente. Vivevano poveramente. A R., paese di pochissime risorse, la miseria era pressoché generale.
Le famiglie agiate si contavano sulla punta delle dita; quelle che se la cavavano a stento, facendo miracoli di economia domestica, non raggiungevano le tre dozzine, poi vi erano altrettanti contadini proprietari che riuscivano bene o male a sbarcare il lunario e la più gran parte della popolazione vivacchiava alla giornata: se riusciva a mettere su il pranzo, doveva quasi sempre rinunziare alla colazione e alla cena. Infine vi erano i poveri: braccianti senza lavoro, invalidi, vecchi, bimbi, accattoni di mestiere. Raimo era un bracciante agricolo che riusciva a guadagnare un centinaio e mezzo di lire all’anno, la moglie ne guadagnava un altro centinaio e mezzo di lire all’anno, la moglie ne guadagnava un altro centinaio facendo il bucato ad alcune famiglie benestanti, recandosi a raccogliere frascame nei boschi dopo il taglio e compiendo altri lavori occasionali. Il giovane contadino era stato compagno di scuola di Oscar e Mariuccia, da ragazza, spesso aveva servito in casa dello stesso”.
Tale quadro sarebbe stato certamente più completo se vi si fosse accennato anche al numero complessivo dei nuclei familiari allora esistenti in paese, di molto superiore al migliaio. Si sarebbero così meglio desunti i limiti soggettivi ed oggettivi alla base dei comportamenti dei vari personaggi al fine di capire più compiutamente gli atteggiamenti di ciascuno di essi tenuti, spesso temuti e sempre sofferti perché imposti da un insieme di vincoli che non avrebbero consentito modi di essere e di agire diversi. Esemplari al riguardo il colloquio di Oscar e Raimo allorché viene fuori il rapporto che il primo aveva con Mariuccia, la moglie del contadino, e come di fatto si concludano gli approcci tra Oscar e Giuseppina prima che quest’ultima diventi la sua amante e le stesse schermaglie tra Oscar e Livia al momento di troncare gli incontri, nonché, per l’altro verso, le difficoltà montanti per seguire l’andamento di aziende agricole senza o con minime prospettive di sviluppo. A tale ultimo riguardo preme segnalare che è proprio la vita contadina, in campagna o con gente di campagna, ad assumere prevalente rilievo nel racconto: è un aspetto che ne caratterizza l’essenza, delimitandone il tempo e suscitando un interesse sempre più intenso nel seguire i rapporti che i vari protagonisti intessono di volta in volta tra loro. Interesse – si badi – ancora e vieppiù crescente se lo si confronta con quello derivato in chi scrive alla lettura del testo negli anni sessanta. Quasi si fosse in presenza di una sorta di prova, assunta a quell’epoca a futura memoria, della vita del borgo d’allora. Ed oggi più gradita perché già antica, desueta, pronta a finire nella notte dei tempi, nel buio del passato. Ma il libro è espressione di un’epoca che non è soltanto propria del borgo direttamente interessato al racconto, sebbene di tutto il territorio circostante, non dissimile, peraltro, da quella vissuta allora nel resto del Mezzogiorno. La fortuna del protagonista – erede ancor giovane di magri appezzamenti di terra in pianura e in montagna insieme a titoli di stato di non rilevanti somme - , se gli consente di fare personalmente il bello e il cattivo tempo in una temperie oggettiva non certo creata da lui, si dimostra maggiormente invasiva e dirompente a fronte di una micro-realtà socio-economica dalla quale emergono, in tutte le loro impellenti esigenze, i bisogni del vivere quotidiano, alla cui base stanno le scelte di vita anche sentimentali dei tanti altri protagonisti e delle quali si giova opportunisticamente il nostro “giovin signore”. Così basta la vita di una mucca a fare la fortuna o a mettere in crisi un nucleo familiare, assicurandone lo sviluppo se l’attività riproduttiva della stessa – con latte e vitelli – si prolunghi per un tempo più esteso del solito, o, per converso, determinandone stenti e miseria in presenza dell’inaspettato evento dell’improvvisa morte dell’animale. Lo stesso dicasi per lo stato di salute dei vari personaggi del racconto: la malattia mette infatti a dura prova la regolare conduzione delle già misere aziende agricole – come quelle di Carlantonio – maggiormente aggravate dagli eventuali debiti contratti coi bottegai e col farmacista, mentre il soggetto fortunatamente sano e forte è in grado di far fruttare meglio quel poco che gli deriva dall’uso ininterrotto delle proprie braccia.
Restando sempre aperta per tutti la strada della emigrazione che, se era enormemente dura da percorrere, restava nei fatti risolutiva e tuttavia ritenuta una “estrema ratio” che nessuno avrebbe mai voluto affrontare.
Ma se tutto ciò impegnava tanta parte degli abitanti del borgo, tra gli strati più fortunati di “proprietari” e “benestanti” si registravano accadimenti non proprio rispettosi di quei principi etici e religiosi che essi pur dicevano di professare. E’ il caso del fratello di Don Vincenzino – signorotto del Castello – il quale dalla moglie del mezzadro ha una figlia – Giuseppina – della quale si invaghisce poi il tenente Oscar; o di Don Ernesto il quale, dalla sua parte, per essere affabile, ospitale e generoso, aveva finito per dissipare il cospicuo patrimonio familiare; o dello stesso Oscar, incapace di dare una sistemazione col matrimonio alla sua condotta, qualificata dalla stessa voce popolare di “donnaiolo” e di “scapolone” impenitente, solo perché, a suo dire, non avrebbe trovato in paese un “partito” degno di lui. Si ritrovano, tuttavia, nel racconto atti, comportamenti, usanze di cui tutti ancora sono vivamente partecipi: il mercato come occasione di incontri anche sentimentali, la caccia, le feste religiose, i lavori in campagna, sperando in raccolti legati purtroppo quasi esclusivamente al favorevole andamento stagionale. Interessante anche la descrizione degli obblighi derivanti dai patti agricoli dell’epoca, prevalentemente di mezzadrìa e colonìa, comprese le tante regalìe previste in favore del proprietario terreno, obblighi modificati solo dopo la seconda guerra mondiale. Si noti di sfuggita l’usanza – si spera non più in auge – dei regali ai maggiorenti del paese per tenerseli buoni …
Chi volesse saperne di più non deve che iniziare la letture, con l’augurio che da questo inaspettato viaggio nel passato possa derivare soddisfazione interiore, grazie alla penna ormai dimenticata, se non del tutto sconosciuta, d’uno scapolone del secolo scorso e del nipote “ex fratre” che ha voluto riconsiderarla e rinverdirla a distanza di poco meno – o poco più – di quarant’anni dalla scomparsa. Nella certezza che egli – l’autore – avrebbe condiviso col nipote l’affermazione cecoviana espressa da un personaggio de “Il gabbiano” secondo cui “essere considerato scrittore anche mediocre dà piacere”, soprattutto perché – è da presumere – un cosiffatto giudizio ha il potere di disarmare il critico più agguerrito. Una certezza che avrebbe conquistato persino monsieur Arouet – più noto come Voltaire – il quale asseriva che “se essere dubbiosi non è piacevole, la certezza è improbabile” e che perciò “chi stima di essere certo è un imbecille”. Si sarebbe egli invero convinto che nella specie il giudizio è innocuo, dati i tempi, le circostanze, i personaggi implicati. E poi, stando alle parole, l’autostima elargita non sconfina col contrario? Motivo che impone allora - sia per compensare la già espressa “mediocrità” sia per garantirsi l’assoluzione dell’autore – un’altra citazione, pure di Cecov, questa volta presa dalle “Tre sorelle”, dove un aspirante letterato, a commento di una sua opera, afferma: “Feci quod potui, faciant meliora potentes” (Ho fatto quello che ho potuto, facciano meglio coloro che possono). Inserendovi, però, in aggiunta, un inciso venato di supponenza: “Sed potui, quadropter feci” (Ma ho potuto, perciò ho fatto). Con un siffatto viatico si potrà procedere indenni sulle strade di STRAPAESE che, a tal fine, attende a … libro aperto …
Aprile 2005 Mario Izzi
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