Ancora gli anni Sessanta, ancora l’Equipe
Avevo promesso, o minacciato ( dipende dalla prospettiva come disse quel tale al quale domandarono perché fosse così basso..), in una precedente occasione nella quale mi ero già occupato dell’Equipe 84 su queste pagine di tornare sulla storia del gruppo che insieme ai Rokes ha rappresentato le punte di diamante dei “complessi” italiani dei favolosi sixties. In effetti la storia dell’Equipe è una miniera di fatti, aneddoti, curiosità, coincidenze, che lasciano ampio spazio alla voglia di chi ha qualche interesse per la storia della nostra musica sessantottina. Avverto subito i naviganti che si avventurano su queste righe scritte come al solito di getto e senza un canovaccio ben preciso se non quello della mia memoria e della mia voglia: questa non è una storia in senso classico. E’ piuttosto una specie di circumnavigazione guidata intorno al mondo musicale di quegli anni. Del resto i pochissimi fedeli che hanno avuto il coraggio e la stoica volontà di seguirmi nelle precedenti puntate ormai lo sanno, qui si salta di palla in frasca come diceva la mamma di Nicola, Filomena nostra professoressa alle medie, quando correggeva i temi di italiano. Tanto per non smentirci insomma.
Allora, partiamo questa volta dalla famosa casa dell’Equipe a Milano, un’abitazione che era diventata una specie di crocevia dalla quale prima o poi passavano tutti i protagonisti noti e meno noti del panorama musicale dell’epoca. Si trattava di una villa che tuttora si trova in via Bodoni, a Milano, nella quale andarono ad abitare tutti e quattro i componenti del gruppo. Maurizio Vandelli in un’occasione nella quale ho avuto modo di ascoltarlo, a Recanati, raccontò questo aneddoto che poi ho ritrovato riportato anche in un libro. Nel viavai che c’era nella loro casa di Via Bodoni capitava spesso che arrivassero musicisti italiani e stranieri che finivano per trovare ospitalità per periodi più o meno lunghi. Accadde che una sera nella quale Vandelli cercava l’ispirazione giusta per chiudere la famosa “Nel ristorante di Alice”, si era ritrovato in casa un ospite straniero che non conosceva. L’ospite si era messo alla chitarra con lui e lo aveva aiutato a ricercare e provare una frase di chitarra solista che doveva servire come uscita finale del pezzo. Qualche giorno dopo l’Equipe al completo registrò in sala d’incisione “Nel ristorante di Alice” completa, nella sua versione originale. Era ancora presente la stessa persona che, dopo aver attentamente ascoltato la canzone, avendo riconosciuto nella parte finale le note che aveva contribuito ad improvvisare insieme a Vandelli. Finita l’audizione lo sconosciuto si alzò dalla poltrona della sala dove era seduto e andò ad abbracciare e ringraziare il cantante, felice che avesse incluso la sua improvvisazione nella stesura finale del pezzo. A quel punto Vandelli chiese chi fosse e finalmente gli spiegarono che era Jimi Hendrix. Incredibile ma vero ! Altro incontro ravvicinato con il mito. In occasione di un viaggio a Londra ancora Maurizio Vandelli fu condotto da Julie Driscoll e Brian Auger in casa dei Beatles.
Il cantante trovò una sala piena di strumenti musicali e dopo un po’ che giocherellava con alcune chitarre vide arrivare John Lennon e Yoko Ono. C’era molta gente e Vandelli perse di vista il Beatle, così tornò a suonare una delle chitarre trovate in casa. Ancora emozionato Vandelli racconta che dopo un po’ senti alle sue spalle qualcuno che aveva preso ad accompagnarlo con un’altra chitarra, si voltò e vide che a suonare era proprio John. Un incontro che Maurizio ancora ricorda come uno dei momenti più elettrizzanti della propria vita.
Meno sentito l’incontro con Paul Mc Cartney che Vandelli incontrò nello stesso luogo insieme al regista Marco Ferreri e al produttore di Jeff Beck e degli Yardbirds Giorgio Gomelsky. In pratica nonostante, o forse a causa, della presentazione di Gomelsky che decantò a Lennon la bravura di Vandelli il leader dei Beatles dopo qualche convenevole lo ignorò completamente per tutto il resto della serata.
Un ricordo che fa il paio con quello di Ricky Gianco che non perde occasione di raccontare come quando fu presentato, sempre a Londra, ai Beatles dovette sorbirsi le facili ironie di Gorge Harrison che lo chiamò “Macaroni” per tutta la serata. Ragazzi ho capito, ma stiamo parlando dei Beatles e di Ricky Gianco, con tutto il rispetto. Chissà quanta gente veniva presentata a quei tempi ai Beatles; quanti musicisti arrivavano a Londra in pellegrinaggio forse nella segreta speranza di essere contaminati in qualche modo dalla fama e dalla bravura dei Fab Four. Anche a me è capitato di conoscere diversi grandi calciatori ma non ho mai preteso che mi considerassero un loro collega solo perché giocavo a pallone per divertimento. E se, per esempio, come mi capitò con Josè Guimaraes Dirceu in una memorabile partitella di calcetto dovetti subire qualche umiliante dribbling non me la presi più di tanto. Il talento va rispettato, e i propri limiti sempre riconosciuti. Tornando all’Equipe e a proposito di modestia, dote della quale di solito Vandelli è accusato di difettare, chiudo con la citazione di una sua risposta a chi gli chiedeva quale fosse il grado di preparazione musicale dell’Equipe dei tempi belli. Sentite: “Zero. Franco ed io suonavamo la chitarra come una raspa, Victor non sapeva cosa fosse il basso, Alfio picchiava come un forsennato e in più se ne andava per i fatti suoi. Eppure dal vivo inspiegabilmente avevamo successo anche se eravamo una tragedia. La nostra vera dimensione era comunque la sala . A parte gli inizi, l’Equipe fu sempre un tipico prodotto da studio”. Beh, magari c’è parecchia esagerazione nei giudizi così negativi di Vandelli, forse anche il desiderio di smitizzare il ricordo di anni che alla lunga hanno finito per pesargli molto. Il successo quando finisce diventa molto ingombrante.
Ferdi
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