Archivio storico de

L’Eco di Roccasecca

 

Dalla “Edizione speciale monografica” del Novembre ’98, Anno 3, n.17 de “L’Eco di Roccasecca” pubblichiamo due pagine legate alle tradizioni ciociare.

 

Tradizioni popolari

a Roccasecca

 

Soltanto cinquant’anni fa i contadini della nostra terra usavano l’aratro di legno, con il vomere d’acciao, tirato da due robusti buoi roccaseccani. Ricordiamo che alcune volte il vecchio Bernardo ci consentiva di metterci a sedere sull’aratro e di goderci lo spettacolo. Purtroppo ricordiamo pure una non felice esperienza accaduta proprio a chi vi scrive. Mentre nella posizione descritta ero intento ad osservare il movimento della coda, lento e metodico, con il quale la mucca cacciava da se le mosche che immediatamente dopo le si riposizionavano addosso, non mi accorsi che la mucca vicina si disponeva a "fare pipì". Al primo getto mi alzai di scatto e scappai via lanciando improperi alla scostumata bovina. Erano proprio altri tempi. Questi nostri contadini lavoravano duramente per ottenere dalla terra il massimo possibile, granturco, ovviamente ed ortaggi. Come scrive l’Ascolano "erano rinomati gli ortaggi di Roccasecca, specialmente i broccoletti ... * * * ...vangavano duramente per giorni e giorni e mietevano con il falcetto, curvi sotto il sole d’estate come ai tempi ... di Enea."

Il vino ancora si otteneva mediante la spremitura dell’uva compiuta a piedi nudi, con la partecipazione di tutta la famiglia contadina, figli piccoli compresi, ed il bicchiere di vino faceva parte della vita quotidiana di questi protagonisti, una delle poche cose buone della dura e faticosa giornata. Scrive ancora l’Ascolano: "Le uniche occasioni di festa erano quelle religiose tradizionali, tra cui quella di S. Tommaso il 7 marzo, di S. Pietro Martire protettore del paese (ma anche dalla grandine e da altri malanni) il 29 aprile, dell’Assunta il 15 agosto e di S. Rocco il 16 agosto. Il mercato si svolgeva a Roccasecca centro ogni mercoledì ed era anch’esso occasione di incontri e di allegria. Dalla campagna ci si recava a piedi (le donne coi canestri in testa) percorrendo diecine di chilometri tra l’andata e il ritorno."

 

Moltissimi i tipi di artigianato ed i mestieri particolari presenti fino a qualche decennio fa a Roccasecca ed ora andati quasi totalmente perduti. Tra gli artigiani più comuni ricordiamo gli impagliatori (di sedie, canestri, scope, etc.), i lavoratori in ceramiche e terracotte (le cannate), in rame, in zinco, in ferro battuto, in pietra, in legno, in cuoio, le ricamatrici, gli arrotini, i fabbri. Tra i mestieri più rappresentativi, ormai definitivamente scomparsi, vogliamo rammentarne due in particolare, di cui abbiamo ancora un caro ricordo, seppur sfumato nel tempo. Ci riferiamo a quel signore che portava a domicilio i grossi tocchi di ghiaccio che inserivamo nella ghiacciaia (il frigorifero era ancora un bene esclusivamente americano) e la signora che, di prima mattina, recava in bicicletta, casa per casa, quelle meravigliose ricottine, poste nei caratteristici canestrini di vimini, di varia foggia e misura, a seconda della grandezza della ricotta. Un sapore che affiora ancora talvolta sulle labbra, ma che sappiamo che difficilmente tornerà.

In un libro del Bonanni del 1925 sono riportati alcuni tipici capi del vestiario femminile della Ciociaria:

 

Bella ragazza ciociara col caratteristico “mammacile”

 

" Il mammacile, cioé bambacile, era una tela sottilissima fatta di bambace, cui veniva dato un colore quasi cenerino, a strisce larghe una ventina di centimetri e molto lunghe, soffici quanto mai. Servivano a coprire la testa alle signore di famiglie civili; mentre le popolane portavano sul capo una tovaglia bianchissima di lino. La vestitura delle donne in costume antico era, nella forma, uguale pel ricco e pel povero; però le signore portavano le vesti con galloni di argento e di oro, oltre ad un grembiule di castoro rosso detto: panno matelica (da Matelica?) parimenti con galloni d'oro.

 

I cialoni, così detti perché formavano quasi come un cielo di copertura sulle donne, che ne usavano, ponendoseli sul capo, quando pioveva e sulle spalle, attorno alla vita per ripararsi dal freddo. Erano di lana nostrana e lavorati al telaio in forma meno larga e più lunga, di circa un metro di larghezza e due di lunghezza, a strisce uguali, larghe un cinque o sei centimetri! Le donne lo portavano addosso avvolgendolo alle spalle e tirando le estremità innanzi al petto.

La tramatura, come dicono, era così stretta e serrata, che non c'era caso che trapassasse l’acqua od il freddo! Ora le sole vecchie lo usano!

 

Donne ciociare con grosse ceste che poggiansi sul “cercine” posto sulla testa

 

La centa - cinta - era un nastro a vari colori, tessuto parimenti al telaio col lino, lungo diversi metri, della larghezza di circa tre centimetri, che le donne cingevano girandolo più volte attorno ai lombi in giri sovrapposti per tenere strette le vesti alla vita."

E’ più antica (1871) e più completa la descrizione del costume locale ciociaro lasciataci da B. Scafi sul libro "Notizie storiche su Santopadre".

"Gli uomini usano camicia di canapa o lino, e calzone corto, ossia dai lombi ai ginocchi, e fatto di cotone cecero, o di tessuto di lana e canapa detto accordellata, giacchetta e corpetto simile; un pannolino detto pezza ricopre la gamba investendo anche il piede;

 

alla cui pianta è sottoposta una zona di cuoio grezzo, larga tredici centimetri, e poco più lunga del piede stesso, chiamata ciocia, piegata a punta in cima, e sostenuta, prima da spago, ora da corregge lunghe così che venendo ad involgersi alla gamba ne fermano le pezze, formandone, poi molti giri, quasi uno stivaletto. In testa portano un cappello di lana a cono troncato, che nell'estate è di paglia lavorato nel paese stesso.

Nell'inverno si ricoprono con cappa o mantello di lana bigia e talora turchina a piccola pistagna dritta, da cui pende in giro un corto bavero; e la lunghezza è sino a mezza gamba. Nei giorni solenni o pur di matrimonio, la camicia è di mussolo, il calzone di velluto turchino, corpetto di lana scarlatto, con calzette e scarpe, e nastro al cappello.

Le contadine hanno camicia di lino o canapa, una tunica tessuta di lana turchina su di ordito di canapa, chiamata sargiotta; piuttosto stretta, chiusa in fondo, ed aperta ai fianchi, da dove in doppia banda va restringendosi in guisa che termina sul petto ed alla schiena alla larghezza di un trenta centimetri; e le due bande sono unite da lacci che sostengono la tunica sulle spalle. Uno zinale è cinto a traverso dei lombi e schiena, ed un grembiale o zinale al davanti: tutti di lana turchina. Nel 1840 il vescovo Montieri vi aggiunse il fazzoletto o fisciù che ricopre dal collo al petto. Un paio di maniche ricopre buona parte del braccio al gomito; l'avambraccio è coperto dalle sole maniche della camicia.

La testa è coperta da tovaglia di pannolino, lunga un metro circa, e larga oltre 50 centimetri; e che stendono sul capo in guisa che metà scende alle spalle e metà sul petto; ma questa seconda metà ripiegata nei lati su di se stessa, la riversano sul capo, fermandola con spilla. Cosicché la sola faccia resta scoperta e contornata da tre parallelogrammi formati dal ripiego della tovaglia.

Il piede lo calzano pure con cioce e pezze; dal freddo e dalla pioggia si riparano con celone di circa due metri."

Questo è il modo di vestire ordinario ed è simile globalmente a quello della zona di Aquino, Roccasecca, Pontecorvo e Comuni limitrofi.

 

 

 

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Novembre 1998