Niels Liedholm In un ricordo di Gianni
Nella prima vita calcistica è stato un centrocampista dai piedi buoni, dallo spiccato senso euclideo, uno di quelli che a vederli correre sul campo pensavi che era già un allenatore. E, infatti, la seconda vita calcistica l’ha visto sedere in panchina, dove ha colto i successi più significativi. Niels Liedholm ha salutato tutti poco più di un mese fa; eppure da tempo aveva guadagnato un posto fisso nella squadra degli immortali. Di quei grandi del calcio, cioè, le cui gesta trascendono la vita quotidiana. Liedholm è stato forse uno dei primi a capire l’importanza di avere un’immagine che sfondasse le pagine dei giornali prima, della televisione poi. Il Barone (soprannome guadagnato grazie alla sua innata eleganza in campo e fuori), infatti, è entrato nell’immaginario collettivo degli sportivi italiani grazie ad uno stile preciso.
Stile composto oltre che dall’eleganza, da una forte ironia, da un accento italiano strampalato, che aumentava in maniera esponenziale la forza delle sue battute. Prendiamone una di quelle più surreali che abbia mai detto. Campionato 1986-87, Liedholm allena il Milan, (un Milan reduce da due cadute in serie B: la prima per il calcio scommesse del 1980 e la seconda inopinatamente “guadagnata” sul campo nel 1982) nel parco attaccanti dei rossoneri, oltre ad Hateley e Virdis c’è anche Nanu Galderisi, giocatore di scuola Juve. Ebbene il centravanti un giorno si lamenta con i giornalisti per il suo scarso impiego. Pronta la risposta del Barone: “Galderisi si lagna? Ha ragione. Ma si ricordi che Nuciari (il portiere di riserva di quel Milan n.d.r.) da quattro anni è il miglior portiere italiano, eppure non gioca mai.” Nella sala stampa di Milanello c’è ancora chi si regge la pancia dalle risate. (Giulio Nuciari detiene il record di panchine in Serie A per un portiere. Infatti per ben 333 volte ha indossato la maglia numero 12 collezionando solo 17 presenze nella massima serie; n.d.r.). Ecco questo ero lo stile di Liddas. Sottile, in un certo senso spietato, perché con quella battuta aveva messo a tacere Galderisi, che infatti sparì dalla scena da lì a poco. Oppure quando per caricare i suoi giocatori li paragonava a grandi campioni (Tosetto era il Keegan della Brianza, mentre Mandressi era il nuovo Rensenbrink). Da giocatore Liedholm vince scudetti in patria e in Italia e gioca la finale mondiale del 1958 contro il Brasile. Di quella partita dirà in seguito: “io non l’ho persa. Mi sono fatto male e sono uscito: il risultato era di 1-1 e avevo anche segnato”. Liedholm sfruttò molto la circostanza che ci fossero poche immagini del suo periodo da calciatore. Tanto da poter impunemente affermare che:
“a San Siro, quando sbagliai un passaggio dopo 55 partite, ricevetti una standing ovation”. Il numero delle partite aumentava con il passare degli anni, recentemente erano diventate 69 o qualcosa del genere. Il vero capolavoro di Liedholm come allenatore è stata la vittoria dello scudetto vinto nel 1983 con la Roma, il secondo dell’undici giallorosso. L’allenatore svedese si era già seduto sulla panchina romanista nel 1973; quella squadra aveva qualche campione come il veterano Pierino Prati, il giovane e sfortunato Francesco “Kawasaki” Rocca (primo terzino italiano, dopo Facchetti, ad interpretare il ruolo di difensore di fascia all’olandese, cioè con una costante spinta in avanti) il regista Ciccio Cordova. La Roma di quegli anni si mise in luce, grazie ad un gioco fluido, spettacolare. Dieci dopo (in mezzo nel 1979 c’è lo scudetto della stella vinto con il Milan) Liedholm torna nella capitale e mette su una formazione che già nel 1981 sfiora lo scudetto. Se non fosse per l’arbitro Bergamo che annulla a Turone un gol a Torino, nello scontro decisivo con la Juve. Ma è nata una grande squadra, con un faro ad illuminare tutto e tutti: Paulo Roberto Falcao. Il brasiliano ha talento e classe sublimi, intorno a lui Liedholm costruisce una squadra che ha tanti altri campioni, dal compianto Di Bartolomei a Tancredi, dal bomber Pruzzo al campione del mondo Bruno Conti.
Ci sono anche giovani promettenti, due in particolare, Valigi e Righetti, che per un motivo o per l’altro si perderanno poi per strada. Quella Roma entra a far parte delle squadre più forti del dopoguerra non solo per i suoi uomini, ma per il gioco. Liedholm, per la prima volta in Italia, schiera una squadra a zona. Addirittura irride i suoi critici, schierando sulla linea dei quattro difensori, come centrale Di Bartolomei, che tra le sue qualità non ha certo la velocità. Eppure quella Roma centra lo scudetto nel 1983 e l’anno dopo perde una sciagurata finale di Coppa dei Campioni ai rigori con il Liverpool, giocata all’Olimpico davanti al proprio pubblico. Dopo quella stagione, il Barone torna al Milan e poi, di nuovo, fa il percorso inverso: la sua ultima panchina sarà tinta ancora di giallorosso. Era il 1997. Quindi il progressivo ritiro dalle scene calcistiche, divenuto definitivo nel 2002, quando abbandona il ruolo di consulente dell’area tecnica giallorossa.
Gianni Sarro
La Svezia non ha mai dimenticato Liedholm, nonostante questi abbia eletto l’Italia a sua residenza, al punto da dedicargli, qualche anno fa, un francobollo (sopra)
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