Pagine ciociare C’era na vòta AQUIN
Gianfranco ci ha recapitato un libro edito dall’Amministrazione Comunale di Aquino, che crediamo farà la felicità di tutti gli appassionati di dialetto e tradizioni locali, con qualche riserva che andremo ad illustrare. L’autore, Sergio Macioce, ha dato vita ad un’opera che colpisce già al primo impatto per la consistenza e la corposità, elemento da non sottovalutare se si pensa che spesso i testi dedicati a detti, aneddoti e proverbi in dialetto sono molto brevi (escludendo il grande Mario Izzi, naturalmente). Oltre 200 pagine corredate da fotografie inerenti al testo ed anche di buona qualità, anche quando si tratta di immagini d’epoca. Laddove solleviamo qualche perplessità è nella scelta del modo di scrivere il dialetto. Ma qui apriremmo una vecchia e mai sopita querelle che da sempre anima gli esperti del dialetto ciociaro. Non essendo chi scrive un tale esperto, mi limito a riportare il criterio scelto dall’autore, ricordando che altri preferisce la tesi per cui il dialetto dovrebbe essere scritto senza troppe troncature, apostrofi ed interruzioni, ma inserendo delle vocali anche se nella lingua parlata si sentono appena; questo, affermano, per evitare di leggere delle parole dove prevalgono troppe consonanti e parti troncate. L’autore scrive che “nella scrittura ho preferito adottare, per rendere più agevole la lettura, il metodo naturale, cioè scrivere come si parla. *** La “c” dolce finisce senza vocali, esempio “gliu mocc’ (gliu moccio), la “c” dura ch, esempio “a ecch” (qui). L’apostrofo tra due consonanti indica che è stata soppressa una vocale, esempio “gliu prèv’t” (gliu prev(i)t(e) da previter: ‘mb’cill da imbecille. E da tener presente che il nostro dialetto tende ad abbreviare le parole sopprimendo le parole all’inizio, nel corpo e/o alla fine.” Naturalmente chi la pensa diversamente dice che “prevete” è più comprensibile di “prèv’t” , ma, ripeto, in questa sede non è il caso di addentrarsi in schermaglie di cui si occuperanno ben altri esperti. Torniamo al libro, che si divide in varie sezioni. Ben 100 pagine di Vocabolario occupano la prima metà dell’opera: da Abbacchià (sinonimo di Mazzià = colpire, battere a Zuzù = coleottero dalle ali verdi splendenti. Segue una piccola sezione dedicata alla Grammatica, molto utile per capire l’uso dei verbi, dei pronomi, etc. Molte fotografie sono dedicate ad oggetti ed utensili tipici della civiltà contadina. Tra i più particolari ricordiamo Gliu lavègl (il tino), gliu juv (il giogo), Tumm’l o Tumm’r (il tomolo, unità di misura di granaglie corrispondente a circa 44 kg), nu lavatur, gliu pisciatur, nu furn, e tante altre.
Alcune pagine presentano una serie di soprannomi (secondo i casati) e i nomi e diminutivi tipici di essi, da Rocco (Ròcch, Roccucc’ e Rucchtègl) a Tommaso (Tumas, Tumasin, Tumasinegl, Tumasucc, Macin e Macinegl). Forse troppo breve la parte riguardante Proverbi e modi di dire, neanche 10 pagine; tra quelli presenti alcuni sono veramente gustosi: Chi presta gli sòld agl’ amic N’ nved chiù né chist e né chigl’ Chi presta i soldi agli amici Non vede più né questi né quelli
Lu vin fa sangh La fatìa fa ittà lu sangh Il vino fa sangue La fatica fa buttare sangue
Una trentina di pagine, a parer mio le migliori, offrono bellissimi ricordi di Attività e Usanze. Dalla mietitura alla trebbiatura, tutte le tradizioni della vita di paese ed i mestieri, taluni ormai desueti o scomparsi. Un esempio tra i tanti: GLIU FACOCCH’ (JO) (fa i cocchi) Il facocchio era colui che fabbricava o restaurava i carri. L’ultimo valente facòcch’jo è stato ‘Nduniucc cap’ ndròndla . Simpatiche anche le due formazioni della squadra di pallone “schierata secondo il metodo”, con tanto di nominativi e … soprannomi. Da non dimenticare anche l’INNO alla squadra! Curiosi i luoghi dove “un innamorato poteva incontrare sicuramente la ragazza amata”. Erano tre, le TRE EFFE: Alla “forma” (corso d’acqua sulle cui sponde sorgevano i lavatoi pubblici) perché c’era “gliu lavatur” pubblico e tutti si recavano al lavatoio a lavare i panni e a spettegolare; alla “funtana” per attingere acqua (e spettegolare); agliu “furn” per cuocere il pane (e invece pure!).
Continuando la lettura si incontrano, una dietro l’altra, le sezioni dedicate ai PERSONAGGI CARATTERISTICI (da GLIU SPACCAPRET – lo spaccapietre a GLI CAL’SSER – I calessieri); I GIOCHI SCOMPARSI come GLIU TALEFN CU GLI COCC ovvero il telefono coi barattoli, predisposto con due barattoli a cui veniva tolto il coperchio e il fondo, e su una delle due aperture veniva fissata carta oleata ben tesa, al centro si praticava un piccolo foro e vi si introduceva un filo di lana che veniva fissato con un altro nodo; si tendeva il filo, uno si poneva l’apertura di un barattolo vicino alla bocca, mentre l’altro poneva l’orecchio presso l’apertura del secondo barattolo: il telefono più economico del mondo era bello e pronto. Altro che telefonini cellulari e ricariche!); LA TOPONOMASTICA (Agliu tèrmin = termine, pietra di confine); LE PREGHIERE E I CANTI (sia celebri che meno note), LA MEDICINA POPOLARE, preceduta dal simpatico avviso: ATTENZIONE! Tutto quanto riportato sotto la voce “Medicina Popolare” vuole avere solo valore storico culturale e non ha nessuna pretesa di ricettario. Chi è malato vada dal medico. Non si sa mai … chiudono il libro due elenchi di piante, erbe ed animali, con la solita doppia dicitura in italiano ed in dialetto. Nei prossimi numeri dell’Eco di Roccasecca non mancheremo di “approfittare” del testo in questione per proporre qualcuno dei Proverbi, Detti, Usanze, Giochi, Preghiere e quant’altro solo accennati in questa sede. Non ci resta che salutarvi con un “detto” forse adatto alle festività natalizie: S’ tèta ‘mbriacà, ‘mbriacht d vin bòn Se devi ubriacarti, ubriacati di vino buono.
Riccardo Milan
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