A quaranta anni dall’assassinio di Martin Luther King

 

 

 

Il sogno continua

 

“ … I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character …”

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.

 

Martin Luther King pronunciò il celebre discorso che cominciava con le parole "I have a dream" il 28 agosto 1963, al culmine di un'imponente manifestazione di protesta a Washington, sui gradini del Lincoln Memorial.

Il discorso fu alla base del Civil Rights Act approvato nel 1964, anno in cui il leader nero ricevette il Premio Nobel per la pace, a soli 35 anni.

Martin Luther King è considerato il padre della protesta per il riconoscimento dei diritti civili dei neri, considerati cittadini di serie C (se non peggio) nella società statunitense degli anni ’50.

 

 

In realtà già una trentina di anni prima si erano avuti i primi movimenti politici autonomi dei neri nord-americani – pur con scarsi risultati - come il cosiddetto “sionismo nero” (con a capo Marcus Garvey) il cui programma, enunciato nella dichiarazione dei diritti del popolo nero al mondo (31 agosto del 1920) propugnava l’unità politica fra i neri  d’ America e d’Africa ed il ritorno delle popolazioni nere alle loro terre d’origine.

M. L. King fu nominato pastore della Chiesa Battista della città di Montgomery, Alabama, dove la segregazione razziale, come in tutti gli Stati del Sud, era pesante e coinvolgeva tutti gli aspetti della società: scuole, locali pubblici, autobus. E proprio la separazione dei posti tra “neri” e “bianchi” sugli autobus fu alla base dell’evento che determinò un cambiamento essenziale nella protesta razziale ed anche nella vita privata del reverendo King.

Era il 1° dicembre 1955, Rosa Parks (in seguito moglie di Martin), si era seduta nella parte anteriore di un autobus, settore dedicato solo ai “bianchi”, e si rifiutò decisamente di cedere il posto ad un bianco per trasferirsi nella parte posteriore, ; per questo motivo fu arrestata e condotta in prigione. La reazione del movimento NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) al suo arresto fu il boicottaggio dei bus di Montgomery, da parte di circa 42.000 cittadini neri (ed anche un buon numero di bianchi) con Martin Luther King in testa, per oltre un anno, esattamente 382 giorni. La protesta culminò con la decisione della Suprema Corte che stabiliva l’incostituzionalità della legge sulla segregazione negli autobus. L’amministrazione della città di Montgomery fu costretta ad eliminare le distinzioni razziali dal regolamento del suo sistema di trasporti pubblici il 21 dicembre 1956.

Fu la prima vittoria significativa del movimento per i diritti dei neri.

 

 

 

La prima pagina del Montgomery Advertiser del 6 Dicembre 1955

 

Martin Luther King, che era stato arrestato e imprigionato per "aver danneggiato l'azienda dei trasporti pubblici". Cominciava a diventare un leader. La decisione della Corte Suprema, che faceva seguito a quella che aveva dichiarato illegittima anche la segregazione razziale nelle scuole statali stimolò le organizzazioni dei neri a nuove forme di l’iniziativa politica che assunsero, semplificando al massimo il discorso, due forme diverse di “protesta”: quella pacifica, a cui faceva capo Martin L. King, che tendeva ad una graduale soluzione del problema, possibilmente con l’appoggio di tutte le forze progressiste del paese, e quella più radicale che non disdegnava un’opposizione anche violenta al “potere indiscriminato dei bianchi”. Tra il 1964 ed il 1968, alcune delle maggiori città statunitensi, furono teatro di gravi sommosse che ebbero come epicentro i quartieri in cui era accentrata la popolazione di colore.

 

Gli strumenti della lotta del leader pacifista derivavano dall’esempio di Ghandi della non violenza: boicottaggio, resistenza passiva, marce di protesta, ispirato al perdono e all’amore cristiano.

La sua azione ottenne larghi consensi che gli valsero, come abbiamo visto, l’assegnazione del Premio Nobel per la pace nel 1964. Quattro anni dopo sarebbe stato ucciso con alcuni colpi di fucile mentre era affacciato ad una veranda del Lorraine Hotel, a Memphis. Quel giorno non solo i neri, ma l’umanità intera perse qualcosa di importante. Rimane il grande rimpianto per un sogno infranto, per quel che poteva essere e non è stato.

Ebbene, così è la vita. E quel che mi rende felice è che attraverso la prospettiva del tempo riesco a sentire le loro grida: forse non sarà per oggi, forse non sarà per domani, ma è bene che sia nel tuo cuore. E’ bene che tu ci provi. Magari non riuscirai a vederlo. Il sogno può anche non realizzarsi, ma è comunque un bene che tu abbia un desiderio da realizzare. E’ bene che sia nel tuo cuore.

Queste bellissime frasi sono inserite in Martin Luther King, Sogni non realizzati, scritto il 3 aprile 1968. Il giorno successivo, 4 aprile, sarà assassinato.

 

 

Martin Luther King e Rosa Parks su un autobus “integrato” dopo la sentenza del dicembre 1956

 

 

E passiamo al discorso completo, nella traduzione italiana, universalmente conosciuto come I HAVE A DREAM.

 

Qualcuno ci perdonerà se su questa edizione dell’Eco togliamo pagine usualmente dedicate ad altri argomenti, ma pensiamo che qualcun altro apprezzerà.

 

Martin L. King – I Have a Dream

 

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, sotto la cui ombra simbolica ci troviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività. Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti".

 

Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia. Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento.

 

 

Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima. Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli. E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni.

 

Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice. Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.

Ho davanti a me un sogno, oggi!.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del

 

Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.
Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando faremo risuonare la libertà, quando la faremo risuonare da ogni villaggio e da ogni paesino, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual:

"Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".

 

 

Abbiamo scelto di concludere questo lungo ricordo di Martin Luther King con delle informazioni un po’ particolari dedicate al mondo della musica in relazione al grande personaggio in oggetto, senza alcuna pretesa di completezza. Procediamo seguendo ricordi personali.

 

 

La prima canzone, di ci non ricordo la data esatta (dovrebbe essere fine anni ’50, inizio ’60) è Alabama Bus (dedicata al boicottaggio di Montgomery), inserita nell’album antologico Detroit Blues nell’interpretazione di Brother Will Hairston ed in seguito interpretata anche da Ronnie Earl. Sullo stesso argomento va menzionata If You Miss Me At The Back of The Bus (1963) di Pete Seeger, artista abbondantemente menzionato su questo numero dell’Eco. Il riferimento al “retro” dell’autobus è evidente.

Il ritornello fa così:

 

If you miss me at the back of the bus, you can find me nowhere, oh,

Come on over to the front of the bus, I`ll be riding up there.

I`ll be riding up there,

I`ll be riding up there, oh,

Come on over to the front of the bus, I`ll be riding up there.

 

 

 

 

Sempre a Pete Seeger (insieme a Horton, Hamilton e Caravan) si deve il classico We Shall Over Come, che fece da colonna sonora alle marce della pace del reverendo King, universalmente considerato l’inno dell'attivismo per i diritti civili. Tra le versioni più note sicuramente quella di Joan Baez. Ecco il testo, che non credo abbia bisogno di traduzione:

 

We shall overcome,
we shall overcome,
we shall overcome some day.

Oh, deep in my heart, I do believe
we shall overcome some day.

We shall live in peace,
we shall live in peace,
we shall live in peace some day.

Oh, deep in my heart, I do believe
we shall overcome some day.

We'll walk hand in hand
we'll walk hand in hand
we'll walk hand in hand some day.

Oh, deep in my heart, I do believe
we shall overcome some day.

Black and White together,
black and white together.
black and white together some day.

Oh, deep in my heart, I do believe
we shall overcome some day.

 

 http://www.youtube.com/watch?v=RkNsEH1GD7Q&feature=related

 

Sempre Joan Baez in concerto, prima di cantare We Want Our Freedom Now (Vogliamo la nostra libertà, ora), brano nato e pubblicato come rock ‘n ‘roll commerciale, ma poi trasformato dai manifestanti seguaci di M.L. King come canzone di protesta, racconta: "Ho imparato questa canzone da una ragazza del Mississippi che partecipava alle marce di Martin Luther King, in America. Quando si partecipa a queste manifestazioni nei momenti più drammatici ci sono soltanto tre possibilità: quella di cadere per terra svenuto, quella di scappare via tentando di non essere colpiti, oppure quella di cantare. Questa canzone me l’ha insegnata questa piccola bambina coraggiosa che è sempre riuscita a non scappare e a non cadere".

 

 

 

James Baldwin, Joan Baez, e James Forman (da sinistra a destra) in una manifestazione a Montgomery, Alabama, ad una Marcia per il diritto al voto, nel 1965.

 

 

Altre canzoni da ricordare perché a King dedicate o che comunque a lui fanno riferimento sono: Blues for Martin Luther King del pianista Otis Spann in Rare Chicago Blues 1962-1968. March! For Martin Luther King del compianto cantante-chitarrista John Fahey. Harry Belafonte, noto come il “Re del Calipso” per le sue interpretazioni di musica caraibica (Banana Boat, Matilda, etc.), che si è sempre battuto a favore di cause legate ai diritti umani ha interpretato Abraham, Martin and John di.

In anni più recenti gli irlandesi U2 hanno dedicato ben due canzoni a Martin Luther King: Pride (In the name of love), e MLK, tratte dall'album The Unforgettable Fire.

 

 

 

 

 

Ben Harper in Like A King / I'll Rise canta:

 

Like a King, like a King, like a King.
Rodney King, Rodney King, Rodney King.
Like a king, like a King, like a King.
How I wish you could help us Dr. King

 

Il gruppo Rage Against The Machine in Wake Up fa espliciti riferimenti all'opera di M. L. King e contiene al suo interno parte di un memorandum segreto scritto su di lui dall'allora capo dell'FBI Edgar Hoover.

 

 

 

Chiudiamo con una curiosità, un disco italiano noto probabilmente soltanto a pochi collezionisti. Il titolo del 45 giri, datato ovviamente 1968, è Le rondini bianche (sul retro Preludio alla fine) e gli esecutori sono Aldo e I Fallisci. Il nome del complesso nasceva dalla zona di provenienza dei suoi componenti (Civita Castellana, in precedenza Falerii, abitata dai Falisci, popolo dell’Alto Lazio ai tempi dei Latini). Il disco dedicato al leader nero è l’unico di questo gruppo di di cui abbiamo trovato sia pur scarne notizie; non sappiamo se i componenti del complesso  abbiano proseguito la carriera musicale.

E’ tutto. Pace

 

R.M.