(Girotondo)
Stefano Rosso ricordato
da Gianfranco
L’altro giorno sentendo il
telegiornale mi è venuto un tuffo al cuore alla notizia
della morte di Stefano Rosso, una di quelle notizie che non
ti aspetti data la sua età relativamente giovane. Qualche
giorno prima, come un segno premonitore, avevo sentito la
necessità di riascoltare le sue canzoni e avevo cercato fra
i miei vecchi vinili l’unico LP che ho mai posseduto, “…E
allora senti cosa fo”, ma non avendolo trovato avevo
rimandato la ricerca ad un altro giorno. E ora quella
notizia mi chiudeva ogni possibilità di replica lasciandomi
senza parole.
Stefano Rosso per la prima
volta l’ho sentito cantare al Folk Studio nel 1975 quando
allora era d’uso, la domenica pomeriggio, lasciare il
piccolo palco e la grossa seggiola rossa (la mitica!) a
disposizione di quanti cantautori sconosciuti volevano
proporsi davanti ad un pubblico di affezionati. Tra gli
altri ricordo Mimmo Locasciulli e proprio Stefano.
Era appena passato il
tempo quando quel palchetto era frequentato da Antonello
Venditti e Francesco De Gregori che avevano ottenuto intanto
un contratto che li aveva lanciati verso la notorietà.
E quando in quei pomeriggi
appariva Stefano il pubblico rumoreggiava e al termine delle
due canzoni previste insisteva per sentirne altre ma lui
rispondeva che non poteva altrimenti avrebbe attirato su di
se le ire dell’organiz-zazione del Folk Studio.
E sì, era evidente un
feeling particolare con chi ascoltava, e anche per me al
primo contatto era tutto chiaro e comprensibile: le sue
canzoni non avevano bisogno di essere sentite più volte per
essere capite. I testi erano chiari senza arzigogoli e le
musiche, benché carine, con giri armonici semplici. E questa
è la principale caratteristica di S. R., un popolare che più
popolare non ce n’è, che non riproponeva un repertorio
d’annata ma uno suo del tutto personale aderente alla realtà
di quel tempo. Acqua chiara, trasparente da bere in un solo
sorso. E questo suo modo faceva un po’ incavolare quelli
della categoria “impegnati” che si rodono dentro, che a
capire i loro testi non sempre ci si riesce. E lui invece,
anche quando parlava di cose struggenti, non usava mezzi
termini e le raccontava sempre con una punta di ironia. Un
genio naif?
Per scrivere questo
articolo ho cercato in giro notizie della sua vita ma non le
ho trovate. Se fossi un giornalista, e non lo sono, e
soprattutto se fossi meno pigro avrei cercato meglio, avrei
contattato amici e parenti per saperne di più. E invece
niente, ho trovato poche notizie su Wikipedia che vi
consiglio di leggere, e il resto l’ho preso usando, con un
pò di fantasia, i testi delle sue canzoni quasi sempre
autobiografici. Se uno è quello che scrive, allora sono
andato vicino alla verità. Considero queste righe come
frutto di un’intervista immaginaria a Stefano.
Pensare che
volevo fare il violinista
E mi ritrovo a
far canzoni da estremista (Libertà)
Pare che abbia cominciato
ad imparare a suonare la chitarra nel retrobottega di un
negozio di fruttivendolo. Forse non si poteva permettere un
maestro ufficiale che gli insegnasse i primi rudimenti.
Infatti traspare dai suoi versi che la sua famiglia non se
la passasse bene.
Mi è
toccata una famiglia incerta
Che mi ha
dato un tetto e una coperta
E mi ha
detto “Figlio apri gli occhi
Benedici il
pane che ora tocchi”
E papà
tornava a notte
E sembrava
che parlasse a botte
Quando poi
seppi che era finita
Ci lasciò
due lacrime e una vita
(…Ma niente
più)
(mio padre)
e mi lasciò la bella eredità
“Indovinate
qui come si fa” (Reichiana)
E
distillando le rassegnazioni
A casa mia
producevamo sogni
… E noi col
bagno sulle scale
… E ogni
mattina
Tutti
intorno a un tavolino
Affoghiamo
il pane dentro il latte
E anche
quello che non c’è
(Pane e
latte)
Così incerti sono stati
anche gli studi e la sua cultura sa molto di popolare, di
strada, piuttosto che di lettere umanistiche.
Ad
invidiare quello che
Aveva un
libro da studiar
Diceva non
ti serve a niente
La scuola
non ti servirà
Ma io fra
quella gente
Capivo un
po’ di verità
(Letto 26)
Per quanto Stefano faccia
tutto per migliorarsi.
E allora ho
letto e ho letto tanto
E per i
miei problemi ho pianto
E allora
per la mia felicità
Ho fatto un
fuoco di quei libri là
(Reichiana)
Ma Stefano non si arrende
mai e per tutta la vita ha cercato di crescere. Anche i
primi successi non migliorano sensibilmente il suo tenore di
vita. Ma fare canzoni allo fine lo prende prigioniero e non
riesce più a farne a meno.
E se mi
permetto di cantare ancora
E di
inventare canzoni per la gente
E’ perché
cade il pelo e il vizio resta
E un’altra
non ce l’ho io di risposta (Rechiana)
Scrivere versi è un modo
di conoscersi meglio, di scavare dentro se sesso e
esorcizzare gli aspetti negativi della vita.
Ma il più
simpatico e il più bello
L’ho visto
nel cesso ad un piano bar
Dentro uno
specchio ed io con quello
Tutta la
notte giù a parlar
(Letto 26
II parte)
(Stefano
nel 1978, foto Wikipedia)
I primi due album sono il
risultato di anni dedicati alla composizione. Incontrano il
favore del pubblico trainati dal successo di “Una storia
disonesta” che contiene in se il verso “Che bello, due amici
una chitarra e uno spinello” che spopola e lo rende famoso
presso il grande pubblico. Ho provato a chiedere in giro se
si ricordano di Stefano Rosso e quasi nessuno sa chi sia, ma
se provo a canticchiare quel verso allora lo conoscono quasi
tutti. Quella canzone fu un ottimo inizio e sull’onda della
notorietà uscì l’album che la conteneva ed che aveva lo
stesso titolo. Poco dopo è venuto un secondo album “…E
allora senti cosa fo” che suscitò un discreto interesse, che
lo portò a partecipare a spettacoli televisivi fra i quali
uno dedicato ai risultati delle elezioni a cui lui faceva da
contrappunto al giornalista della Rai.
Questo secondo album
conteneva anche la canzone più matura e lirica del nostro
cantautore: “Bologna 77”. Maturità artistica?
E
il grano che nasce
E
l’acqua che va
È
un dono per tutti
Padroni non ha
(Bologna 77)
E invece no, nel frattempo
qualcosa si era rotto, Stefano forse aveva incontrato
problemi seri sulla sua strada o forse aveva voglia di
crescere ma questo intanto gli faceva perdere la sua
naturale ingenuità che quasi certamente era alla base del
suo successo.
Con la casa discografica
le cose non vanno bene e l’album “Bioradiografie” alla fine
viene prodotto ma poi mal distribuito.
Segue quindi la rottura
del contratto e la sua conversione a etichette alternative.
Da qui si perdono le sue
tracce, per il grande pubblico è difficile sapere
l’esistenza stessa dei suoi nuovi dischi, intanto per le
vicissitudini della sua vita un po’ lascia un po’ ritorna,
si dedica al banjo e al ragtime, poi ricomincia a fare
spettacoli ma in piccoli club.
E siamo giunti ad oggi
quando la notizia ci lascia basiti, ci fa capire che in
fondo siamo stati ingiusti nei suoi confronti dimenticandolo
così facilmente. Eppure nel panorama del cantautorato è
stato un personaggio unico, e se è vero che anche solo una
sua canzone ogni volta che l’ascolti riesce a smuovere le
corde più intime dei tuoi sentimenti allora è il caso di
dire che l’autore non deve essere dimenticato. Devo
confessare, per quel che mi riguarda, che ogni volta che
sento “E allora senti cosa fo”, “Bologna 77”, “Pane e
latte”, “Libertà”, “Letto 26” sento qualcosa che è diventato
mio e che mi risveglia ogni volta dal torpore.
Un
ragazzino magro che
Cantava
sempre insieme a me
E che morì
un giorno che non so
E i suoi
bei sogni mi lasciò (Letto 26)
Grazie Stefano per le
canzoni che ci hai lasciato.
Giro-girotonto gira il mondo e va
Gira
fino a quando non si fermerà
(Girotondo)
Gianfranco