Ancora un intervento di Ferdinando, uno degli ammiratori della prima ora di Fabrizio. Ha raccontato sull’Eco n. 19 come lo conobbe, ora lo ricorda con questa sentita ed ispirata:
Perché Fabrizio
Perché uno debba rimanere affascinato dalle canzoni di un cantautore obbiettivamente “difficile” piuttosto che da motivi e composizioni musicali di immediata presa, più orecchiabili, più “facili” da ascoltare e da cantare, non è facile da spiegare. Almeno non lo è se si cerca una giustificazione di pronto impiego. Indubbiamente per ognuno di quelli che hanno amato e amano Fabrizio De Andrè esistono i più vari motivi personali , nonché situazioni ed occasioni magari diversissime, che hanno contribuito ad avvicinarli all’artista. Di sicuro però ci sono degli elementi di fondo che non possono mancare in chi fa parte di questa schiera; insomma non ci si innamora per caso o “per moda” di uno come De Andrè. Bisogna essere capaci di guardare al fondo delle cose e delle persone per condividere la visione del mondo che Fabrizio ha messo in tutte le sue canzoni, nessuna esclusa. Non è classificabile uno come lui; non è stato un cantautore “politico” nel senso che , soprattutto in un certo periodo, si è inteso dare a questa aggettivazione; non è stato un cantante di musica leggera nel senso comune del termine; non è stato un interprete “da festival”; non è stato un rockettaro, né d’avanguardia né, tantomeno, d’imitazione.
Non è mai stato il cantante buono per tutte le stagioni, capace di riciclarsi secondo la tendenza del momento, pronto ad inseguire un qualsiasi passaggio televisivo da utilizzare come cassa di risonanza o come spot per il lancio del suo ultimo disco. Insomma De Andrè non è stato nessuno dei cliché che il mondo musicale ha sempre imposto ai propri protagonisti. Lui non ha mai “fatto i conti” di quello che gli costava essere sempre se stesso, ha semplicemente scelto di esserlo sempre, fino in fondo. A questo proposito è illuminante per capire il suo modo di essere e di intendere il rispetto della persona, di chiunque, senza alcuna eccezione o differenza, un suo commento al suo ultimo album “Anime salve”. Eccolo: “Il titolo si rifà all’etimo delle parole anime e salvo, e vuol mantenerne il significato originale di spirito solitario. Insomma, è un elogio della solitudine e un inno all’isolamento di chi rifiuta di stare nel mucchio. Che sia una libera scelta o che derivi da un’emarginazione, la solitudine produce comunque qualcosa di migliore del vivere in branco, e in confronto alla realtà è un paradiso che ti pulisce e ti offre la possibilità di metterti in contatto con quel mondo delle sensazioni, delle idee, dell’ illuminazione che la filosofia greca chiamava Assoluto. E’ l’unico modo per tentare una testimonianza equilibrata di molte altre solitudini, imposte da un mondo maggioritario che non riconosce gli universi spirituali e i comportamenti di infinite minoranze costringendole ad un isolamento vissuto con dignità o addirittura fierezza, oppure col disperato sconforto di chi si sente abbandonato.
Isolarsi porta a una maturazione spirituale che trasforma l’apparente disagio dell’abbandono in una libera contemplazione”. In queste sue parole c’è la spiegazione della sua riservatezza, direi del suo pudore, troppo spesso scambiato per snobismo da chi è abituato ad un mondo “urlato” dove la gente va in televisione a raccontare in assurde trasmissioni i litigi di coppia o, peggio, ad esibirvi sentimenti ed emozioni intimi che diventano solo il banale pedaggio da pagare al dio audience. Ecco quindi che l’attenzione di De Andrè per gli emarginati, per coloro che non hanno avuto o non avranno mai riflettori e consensi dalla loro parte, diventa una scelta coerente e inderogabile. Nelle sue canzoni non c’è posto per i vincitori, per i potenti, per coloro che hanno il mondo in mano e quando spunta un eroe scopri che è solo un poveraccio illuso e buggerato proprio dai potenti, tragicamente vittima di qualcuno che ne ha fatto un semplice strumento delle proprie mire. Così quelle che sembrano apparenti contraddizioni sono invece l’anima vera di Fabrizio: anarchico e cristiano insieme. Si. Anarchico, come lui stesso ha spiegato, “che crede nell’anarchia non come caos ma come territorio in cui ciascuno deve darsi le proprie regole”. Cristiano che crede in Gesù umanissimo e indifeso difensore dei deboli, così come ce lo racconta in quello stupefacente capolavoro che risponde al nome de “La Buona Novella”. Quei deboli che per lui sono tutti coloro che sono rifiutati dalla società “ufficiale”, fuori dalle regole del consumismo sfrenato che, come quasi profeticamente disse:
“oggi è Milano e Roma, domani sarà anche Budapest”. Le battone dell’angiporto genovese di Via del campo e di Bocca di rosa, i drogati e gli impiccati di Tutti morimmo a stento, le vittime dell’arroganza del potere di Geordie e di Il re fa rullare i tamburi, il sognatore de Il suonatore Jones, l’anarchico de Il blasfemo, personaggi dolenti di venti-trenta anni fa sono idealmente gli stessi che ritroviamo oggi come il secondino di Don Rafaè, il popolo senza cittadinanza di La domenica delle salme, i nomadi e gli zingari di Korakhanè e Dolcenera, i travestiti di Princesa, passando per gli indiani di Fiume Sand Creek. Come era “scomodo” parlare di puttane nei primi anni sessanta, anni in cui i testi delle canzoni erano passati al setaccio della censura prima di andare in TV o alla radio, così è “scomodo” adesso parlare di zingari ed extracomunitari. Ma lui era un cantautore contromano, ed è rimasto fino alla fine una voce fuori dal coro, uno che non ha mai smesso di pensare e di far pensare tutti quelli che ascoltano le sue canzoni. Da pacifista militante, naturalmente prima che montasse l’onda del pacifismo di maniera, le sue uniche armi sono state l’ironia, la satira e la sua poesia. Non ha vinto nessuna battaglia, non ha risolto nessun problema, ma ha toccato l’anima e la sensibilità di tutti coloro che hanno amato le sue canzoni. E non è mai per caso che si amano i suoi versi. Ciao Fabrizio, ci mancherai. Tanto.
Ferdinando
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