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Tradizioni popolari della Ciociaria
Di tanto in tanto l’ Eco di Roccasecca pubblica degli articoli
dedicati al folklore e alla tradizione ciociare. Le pagine che
seguono furono in parte pubblicate in una delle prime, ed ormai
introvabili, edizioni del giornale ed ora, rivedute e corrette,
vengono presentate in una nuova veste.
Un modo di rinnovare una piacevole lettura alle soglie dell’estate
e, allo stesso tempo, di far tornare alla memoria vecchie
tradizioni ed usanze spesso dimenticate.
Tra le fonti utilizzate per questa breve scorribanda ciociara
abbiamo fatto riferimento soprattutto all’Almanacco di Ciociaria di
E. Ricci del 1978, mentre filastrocche e proverbi sono tratti quasi
sempre dal Dizionario del Dialetto di Colfelice, Arce e Rocca
d’Arce - Arrénneme gliu fazzelettòne di A. Germani del 1993.
Si tratta di pagine dedicate a tradizioni specifiche relative a
particolari festività ed a singoli giorni dell’anno.
Le tradizioni popolari escono fuori a valanga, come tante civette,
basta aprire il coperchio della botte in cui sono riposte, o
addirittura rompere la botte con l’accetta, come nella allegorica
ed antica stampa olandese qui rappresentata.
L’Epifania
La festa dell’Epifania è caratterizzata dal simbolico personaggio della Befana, la vecchietta che vola sulla
scopa, brutta ma portatrice di doni. La Befana durante la nottata penetra nelle case attraverso la cappa del
camino e depone giocattoli e dolci nelle calze dei bimbi buoni, mentre riserva ai cattivi cenere e pezzi di
carbone. Nelle campagne della Ciociaria si usava anche prevedere la raccolta delle messi annuali, osservando il
comportamento del tempo nei dodici giorni che intercorrono tra il Natale e l’Epifania; nella serata precedente
la festa, le ragazze auspicavano un possibile matrimonio durante l’anno: si gettavano foglie d’ulivo sulla brace,
se la foglia scoppiava saltando, l’evento sarebbe accaduto, se bruciava soltanto, senza scoppiettìo, le speranze
sarebbero rimaste deluse.
Filastrocca:
Pasqua Befanìa tutte le feste le porta via,
responne Sant’Antonio cu’ Maria:
ancora ce sta la festa mia.
La festa di Sant’Antonio Abate
Sant’Antonio Abate nacque intorno al 250 d.C. a Coma, sul Nilo. Secondo la tradizione egli morì il 17 gennaio,
giorno in cui viene festeggiato in tutta Europa. Egli è considerato il protettore degli animali ed il suo culto è
particolarmente seguito in varie città della Ciociaria. Ad Arpino è usanza la distribuzione del cosiddetto
"pappone", nella piazza di Santa Maria di Civita. Fin dal 1615 il 17 gennaio viene offerta la polenta ai poveri.
Ancora più antica è, in quel di Morolo, la tradizione della benedizione degli animali in piazza e del pranzo in
comune a base di polenta. Capaci caldaie vengono poste davanti alla Chiesa Collegiata e, quando l’acqua bolle,
una donna vi fa cadere una lenta e costante pioggia di farina di granoturco, mentre altre due comari dimenano
grossi matterelli nella caldaia per far fondere la farina. In altre grandi caldaie si sta preparando un robusto
sugo a base di salsiccie e grasso di maiale. Dopo la benedizione del Parroco, ogni donna porge la scodella che
viene riempita di polenta e poi distribuita a tutti i paesani in piazza.
La tradizione vuole che tutti ne assaggino almeno un poco, per devozione. Nel pomeriggio si concludono i
festeggiamenti con la corsa degli asini ed il tiro alla fune tra le squadre della Parrocchia.
Ci si avvia alla festa
La festa di San Biagio
Questa festività cade il 3 febbraio ed è dedicata al Santo protettore dei
mali della gola, San Biagio. Vissuto poco dopo l’anno 300, fu
perseguitato e condannato a morte.
La leggenda vuole che, proprio mentre era condotto al supplizio,
salvasse un ragazzo al quale era rimasta conficcata una spina di pesce in
gola. Da qui il culto popolare che lo ha elevato a protettore delle malattie
della gola e l’usanza di porre una candela benedetta sulla parte malata
per affrettare la guarigione. san Biagio è anche protettore dei cardatori
di lana, per via degli strumenti di tortura adoperati su di lui.
La ricorrenza del 3 febbraio viene festeggiata a Fiuggi con la "Festa delle
Stuzze".
La tradizione medioevale vuole che San Biagio, la notte precedente il
previsto assalto dei Saraceni alla città, avesse fatto apparire delle alte
fiamme immaginarie convincendo i
predatori di essere stati preceduti da altre orde barbariche che avevano
già saccheggiato, distrutto e dato fuoco a tutto. Da qui il rito che vuole
che la nottata precedente la festa, gruppi di paesani portino in giro
tronchi d’albero accesi e carri crepitanti di fiamme, mentre cataste di
legna ardono in vari punti della città.
Il Giovedì grasso
In Ciociaria la ricorrenza è stata sempre vissuta tra balli, mascherate e cortei caratteristici. Fino all’inizio del
secolo, a Morolo, Ceccano e Pofi, in questa giornata si svolgeva la "Caccia alla Bufala", una giostra popolare ad
imitazione delle corride importate dalle truppe spagnole che per tanti anni hanno stazionato e scorrazzato
nella zona.
Un tratto della strada principale veniva sbarrato e vi veniva portata una bufala, incitata e sollecitata da gruppi
di giovani che agitavano drappi rossi di stoffa e che la pungolavano con lunghe pertiche appuntite. La bestia,
spaventata dal clamore della folla e aizzata dai giostratori, si scagliava a capo basso contro questi ultimi che
cercavano scampo arrampicandosi sulle palizzate. Quando la bestia infuriata stava per raggiungerli, veniva
distratta da altri gruppi che cercavano di richiamarne l’attenzione. In questo modo i giovanotti e la bufala
percorrevano avanti e indietro più volte la strada, fino al completo esaurimento delle forze. Finita la "giostra",
l’animale veniva ammazzato e la carne distribuita a tutti i paesani.
Il Martedì grasso
Tra le tante iniziative che si sono sempre prese per l’ultimo giorno di Carnevale (sfilate di carri allegorici, feste
mascherate, etc.), ricordiamo quella tipica di Frosinone, denominata la "Festa della Radeca".
Ogni cittadino portava in giro per la città una foglia di agave o di aloe, con la quale doveva toccare la spalla di
un forestiero, che veniva così ammesso alla festa.
Il corteo rappresentava la rivolta della popolazione frusinate contro le truppe franco-polacche che, sulla fine
del secolo scorso, erano state cacciate dalla città.
Le randellate assestate sulla testa dei nemici, e quindi sui loro "kepì", erano passate
nella tradizione col gesto di distribuire colpi di "radeca" (mazzate) sulle bombette, tube o cappelli duri che i
malcapitati avessero indossato in quella occasione. Il carro era preceduto dalla banda musicale e dalle
autorità, quindi seguiva la popolazione. Il fantoccio issato sul carro rappresentava il Generale Championnet, al
quale erano dedicati omaggi satirici, pernacchie e sberleffi durante tutto il percorso. Giunto in Piazza della
Prefettura, il Generale veniva spogliato della sua uniforme e dato alle fiamme tra il tripudio popolare. Un anno
dopo nonostante fosse ancora vivo il trauma dell'anno precedente, i frusinati vollero festeggiare ugualmente il
carnevale e quindi onorare la festa della “Radeca”, per esorcizzare paure, fame e per irridere i potenti. Il
generale francese Jean Étienne Championnet, narra la leggenda, era ad Anagni quando gli fu annunciato che la
popolazione frusinate si era nuovamente ribellata e si mosse alla volta della città. Un gran numero di ciociari,
saputolo, si dispose in attesa del “Generale” e, sarà per l’atmosfera carnevalesca, sarà per la proverbiale ironia
ciociara, fatto sta che qualcuno, in attesa dell'ufficiale, ogniqualvolta in lontananza si sentiva rumore di cavalli
in arrivo, cominciava a gridare “ Essegliè Arriva! Essegliè!!” Quando Championnet entrò in città, si trovò in
mezzo ad una folla sbeffeggiante. Sempre secondo la leggenda, pare che l’ufficiale francese non reagì
violentemente, anzi preso dall’atmosfera goliardica della situazione, stette al gioco, prese parte alla festa,
tracannando il forte vino rosso locale e trangugiando le celebri fettuccine ciociare. Al termine della festosa
giornata i francesi se ne andarono portandosi dietro un carro pieno di regali, tra cui alcune botti del robusto
vino così generosamente assaggiato e da allora Championnet divenne addirittura un simbolo del carnevale di
Frosinone. Da qi la tradizione di cui si parlava del fantoccio ubriaco trascinato per le strade della città.
Filastrocca
Carnevale vecchie i pazze
s’è impegnate gliu catenacce
i la moglie pe’ dispette
s’è impegnata gliu scallalette
i gliu figlie pe’ dulore
s’è impegnate gliu casarole
Il pianto delle zitelle
Secondo la tradizione, nell’alto medioevo, all’epoca del movimento iconoclastico bizantino, un monaco si
rifugiò in una grotta nei pressi di Vallepietra per sfuggire alle persecuzioni. Sulla parete egli abbozzò un
disegno raffigurante la SS. Trinità. Per circa trecento anni la grotta venne abitata dai monaci benedettini, poi
fu abbandonata e dimenticata. Sul suo successivo ritrovamento fiorì un’altra leggenda: un devoto contadino
che arava sul crinale del monte, vide i suoi buoi scivolare all’improvviso nel burrone; egli invocò subito la SS.
Trinità e scese a precipizio l’impervio sentiero. Quale fu la sua meraviglia nel vedere i suoi animali che
pascolavano tranquilli, miracolosamente illesi, dinanzi alla grotta, all’interno della quale scoprì la sacra
immagine. Ancora oggi è visibile, sullo spuntone dell’altissimo dirupo, un arnese che i vecchi pensano sia
l’aratro del contadino rimasto impigliato tra i rami sulle rocce. Col passare dei secoli la tradizione si è arricchita
di altri elementi di devozione. Tra questi, la rappresentazione detta "il pianto delle zitelle", che costituisce uno
tra i più antichi documenti di teatro popolare italiano, spontaneo e al tempo stesso geniale.
Le "zitelle" - ovverosia le ragazze da marito -si recano in processione, vestite di bianco, recando seco i segni e
gli oggetti della passione di Nostro Signore. Giunte sulla terrazza prospiciente il Santuario, raccontano ai
devoti, cantando un motivo popolare, la passione di Gesù Cristo.
La Giostra del Maialino
Quando si dice che il Sacro si mescola con il profano. A Segni ( ed anche a Colfelice) venne elevato a patrono
della città San Gaetano da Thiene, vicentino, vissuto tra il 1480 ed il 1547, fondatore della Congregazione dei
Chierici Regolari, detti Teatini.
Nel giorno dedicato al Santo, a Segni, tra le varie manifestazioni in suo
onore, venne stabilito di perpetuare una antichissima tradizione popolare.
Come vedremo questa tradizione, molto simile ad una corrida, non è,
probabilmente, il modo più sereno e tranquillo per festeggiare il Santo
Patrono. Questa "corrida" in miniatura si svolge dunque annualmente
presso le vestigia dell’antica Acropoli, accanto alla Chiesa di San Pietro,
dove è rimasta una vecchia cisterna per la raccolta delle acque. La
particolarità dell’evento consiste nel fatto che al posto del tradizionale toro
da corrida, viene "utilizzato" un meno ingombrante maialetto, e che, al
posto dei toreri, entrano in campo dei "cacciatori" bendati che finiscono
per darsele di santa ragione. Vediamo come si svolge. Un corteo di
rappresentanti delle contrade cittadine, vestiti nelle fogge più strane e
bizzarre, percorre le vie del centro fino a raggiungere la cisterna, dove è
stato immesso il povero maialino con un campanello legato ad una zampa.
Altri campanelli similari vengono attaccati ai piedi dei giostratori, i quali
sono anche bendati. Al segnale convenuto, ciascun concorrente, attirato
dal suono del campanello, che crede essere quello del maialetto, corre da
quella parte menando poderosi colpi di scopa, e colpendo spesso un altro
giocatore. Da qui l’ilarità della folla che assiste e che con alte grida incita i
concorrenti, spesso indirizzandoli a bella posta l’uno contro l’altro, soltanto
per il gusto di vederli ruzzolare a terra, o darsi tante "mazzate" di santa
ragione, o battere le povere costole sui lati della cisterna. Dopo una
mezz’ora di lotta, la vittoria andrà alla squadra che sarà riuscita a colpire
più volte (!) il maialetto, e che otterrà come premio l’animale suddetto. Se
pensiamo che San Gaetano prescrisse ai suoi seguaci "l’assistenza ai poveri, agli incurabili, agli orfani ed ai
diseredati, mediante la costituzione di ospedali ed istituti di ricovero e di rieducazione", non sappiamo proprio
quanto gradisca questa "giostra" in suo onore proprio nel giorno della sua festa.
Tradizioni di popolo.
Santo Eleuterio
Eleuterio nacque in Scozia da nobile ed agiata famiglia, si convertì al
Cristianesimo e nel 629 partì, con altri fedeli, in pellegrinaggio, alla volta
della Palestina. La tradizione racconta che, al ritorno dalla Terra Santa,
Eleuterio (Sante Lauterie in quel di Arce) percorresse la Via Appia e la
Via Latina, per recarsi a Roma. Giunto ad Arce, di notte, nei pressi della
torre, Eleuterio chiese alloggio al padrone dell’unica locanda esistente,
ricevendone in risposta un netto e sgarbato rifiuto; in più, l’oste gli aizzò
contro due grossi e feroci mastini i quali però, invece di azzannare il
pellegrino, al suo cospetto si fecero mansueti, accoccolandosi ai suoi
piedi. Il mattino dopo il pellegrino fu ritrovato disteso in terra, morto, al
cui corpo i due cani facevano la guardia, mentre alcune serpi gli
rendevano omaggio lambendogli i piedi; inoltre, la locanda era invasa di
moltissimi animali. Sul corpo fu trovata una chiave, al cui tocco i cani
erano diventati buoni. Si gridò al prodigio, sicché la gente volle
provvedere ad una degna sepoltura del pellegrino, che venne
pubblicamente acclamato Santo.
Tanti furono negli anni i miracoli ad egli attribuiti: guarigioni, prodigi,
superamenti di calamità pubbliche e private, come riferisce il Corsetti nel
suo libro "Arce" del 1957. Santo Eleuterio è rappresentato, nelle effigi e
nelle statue con i due cani ai piedi, la chiave e la serpe.
Egli è venerato come Patrono di Arce, e protettore dalla rabbia e dai
serpenti velenosi. La sua festa viene celebrata il 29 maggio.
In questa occasione la statua del santo viene portata a spalla dal
Santuario alla Chiesa parrocchiale, lungo un percorso di circa quattro
chilometri, in un tripudio di fiori, ceri e fuochi d’artificio. Alcuni fedeli
partecipano alla processione a piedi scalzi, mentre le donne indossano
abiti molto sgargianti, pettinature e ornamenti di foggia antica, recando con sè un canestro infiorato ricolmo di
"ciammelle de Sante Lauterie" (le ciambelle del santo). Sono grosse ciambelle di pasta all'uovo che
tradizionalmente, al termine della processione, vengono distribuite ai portatori della statua (che sarebbero:
chiglie che l’affitane), agli organizzatori ed alle autorità. Per una descrizione più particolare della processione,
ci portiamo sulle pagine del testo di Mario Corsetti precedentemente citato.
Già all'alba la grossa campana suona a distesa. A gruppi si va al Santuario. Dopo la Messa si forma la
processione. Chi non è potuto andare attende lungo la strada. Molti si recano "a castello" a far da vedetta per
quando spunta, sotto il ponte di San Martino, l'alto stendardo azzurro. E quando poi, preceduto dalla
interminabile doppia fila di fedeli, dai "fratelli" della Confraternita in camice bianco, rocchetto azzurro e
bastone alla pellegrino, appare il maestoso trono dorato con la statua del Santo, lacrime di gioia devota rigano
il volto dei fedeli.
Campana, campanelle, colpi in aria salutano il Santo come se fosse andato in cielo e tornato in mezzo al suo
popolo per largire nuove grazie e favori divini. Preceduti da solenne triduo in chiesa, il giorno 29, poi, grandi
festeggiamenti che durano due o tre giorni; processione per le vie del paese, cui interviene il Sindaco con la
Giunta, musiche, fuochi d'artificio.
Non manca il palio che fino a pochi anni fa era immancabilmente costituito da un vitello e chi giuocava faceva
segnare il proprio nome sul biglietto.
Nella seconda o terza domenica di Giugno, ma con minore solennità e con un senso di accorata passione
nostalgica per il distacco, la statua viene riportata alla Chiesa Santuario.
Ave, ave S. Eleuterio...
Ave, ave gentil Patrono...
è il canto che s’innalza al cielo e man mano si spegne nella piccola chiesetta.
Fino a qualche tempo fa, in onore del Santo, si teneva un digiuno stretto (diune stritte) il 5 maggio, a base di
pane e acqua. Ma se "il ricordo della tradizione è abbastanza vivo - osserva A. Germani - la sua pratica va
diminuendo di continuo”.
Ave, ave S. Eleuterio...
La festa della Panarda
Questa tradizione si svolge il 16 agosto, festa di San Rocco, elevato a Santo Protettore da più di un paese della
Ciociaria, Roccasecca in testa. A Villa S. Stefano alla festa religiosa è stata abbinata un’antica usanza popolare.
Dopo il rientro dalla processione, si dà luogo alla "festa della Panarda", che perpetua l’uso di elargire la
pagnottella di pane ed il boccale dei ceci cotti.
Il rituale prevede che una Commissione, posta in piazza dietro capaci caldaie, proceda alla distribuzione del
pane e dei ceci, secondo una gerarchia precedentemente individuata.
Vengono fatte le "chiamate", ad ognuna delle quali un portatore, vestito nel costume tradizionale (calzoncini
azzurri, camicia a scacchi rossi e verdi, basco nero con fiocco rosso), si presenta al distributore dei ceci e
porge il boccale di coccio.
L’altro, manovrando due mestoli, con quello bucato immette nel boccale i ceci, con quello ordinario
somministra il condimento; poi consegna il sacchetto di pane al portatore, che di corsa si reca a casa del
destinatario, per portare con i doni il tradizionale messaggio di solidarietà tra i devoti del Santo.
La ballata di Santo Sossio
Nella campagna di Castro dei Volsci, sulla riva sinistra del fiume
Sacco, si svolge un caratteristico pellegrinaggio (il 22 e 23
settembre) presso il Santuario di Santo Sossio, caratterizzato dal
fatto che i devoti, anzichè marciare lentamente chiedendo grazie
particolari, si recano dal Santo ballando festanti. Al suono degli
organetti, che eseguono sfrenati "salterelli" i balli si trasformano in
gare di resistenza, fino al limite delle forze. Ogni tanto ci si ferma,
ci si rifocilla con le vettovaglie portate da casa, all’ombra dei
castagni del vicino bosco o lungo la riva del fiume, per poi tornare a
partecipare ad un altro turno di danze. In mancanza di precisa
documentazione, si può pensare che questo modo singolare di
andare in processione derivi da una sovrapposizione cristiana ad
una celebrazione pagana, oppure all’acquisizione dei balli biblici, accettati nel primo periodo dell’età cristiana.
La festa di San Martino
Una festa a Pontecorvo, primi anni 60
(Archivio storico Fam. Sarro)
Tutti certamente conoscono la festa dell’11 novembre dedicata a San Martino (315-397), Vescovo di Tours,
evangelizzatore delle Gallie.
In particolare, in Ciociaria, il fatto che tale festa cada nel periodo della svinatura, dette luogo, con la massima
"A San Martino spilla la botte e assaggia il vino", a tutto un rituale tra i contadini ciociari, i quali
scambievolmente si recavano nelle case vicine per confrontare i prodotti delle cantine, centellinando il vino,
corroborato da pane casereccio, fette di prosciutto e pezzi di formaggio.
Si mangia e si beve (stessa fonte)
Spesso gli ospiti trovavano, accanto al ciocco del focolare, la pignatta di coccio, in cui cuocevano le castagne,
altro frutto di stagione.
Le "callalesse" e le "caldarroste" ben si accoppiavano al vino nuovo, e prolungavano in allegria le fredde serate
d’autunno.
A cura del Direttore