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LIEGI : il sapore della leggenda e
delle patatine di Stavelot
Reportage esclusivo di Ferdinando
Ventidue aprile 2012 .Secondo incontro ravvicinato con la leggenda del ciclismo. Ci eravamo
lasciati sulle pietre della Parigi Roubaix, sugli attacchi di Cancellara e Tom Boonen nella
foresta di Arenberg, eravamo rimasti alla festa di O’Grady capace di entrare tutto solo nel
velodromo di Roubaix. Era il 2007. Cinque anni dopo torniamo in Belgio per scoprire un altro
pezzo forte della “campagna del nord”. La Liegi Bastone Liegi è la più vecchia delle classiche.
Per questo è chiamata la Doyenne, la Decana.
Un po’ di storia. La prima edizione, venne disputata nel 1892 e venne vinta dal corridore di
casa Leon Houa, primo anche nei due anni successivi. Dopo un’interruzione di tredici anni,
nel 1908, il francese Andrè Trousselier conquistò la prima vittoria non belga, evento molto
raro fino, circa, agli anni cinquanta. Proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale la corsa
acquistò prestigio internazionale e i più grandi campioni iniziarono a frequentarla. Tra il 1951
e il 1952 ci fu la doppietta dello svizzero Ferdi Kubler, seguita da quelle di Stan Ockers e
Fred de Bruyne. Intorno alla metà degli anni sessanta i corridori italiani cominciarono a farsi
vedere sul podio, Vittorio Adorni finì tre volte sul podio senza mai vincere mentre Carmine
Preziosi fu primo nel 1965.
Gli anni settanta furono, invece, il teatro dell’impresa di Eddy Merckx, unico corridore
capace di vincere la Liegi per cinque volte. Nel 1977 si impose un corridore appena
ventitreenne, neoprofessionista, che in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi
campioni della storia: Bernard Hinault. Il periodo d’oro per gli italiani iniziò nel 1982 non con
Moser (terzo nel 1978), né con Saronni (secondo nel 1983) ma con Silvano Contini che
sconfisse il belga Fons De Wolf e conquistò la vittoria più importante della sua carriera. Ma
per i nostri colori la Liegi è legata indissolubilmente al nome di Moreno Argentin, quattro
volte primo tra il 1985 e il 1991. Dal 1997 al 2007 si apre un altro periodo d’oro per i colori
italiani : in 11 edizioni i nostri ciclisti trionfano per ben sei volte: Bartoli, 1997 e 98, Bettini
2000 e 2002 con un podio tutto italiano grazie a Garzelli e Basso, Rebellin nel 2004 e Di
Luca nel 2007.
La gara è molto diversa dalla Roubaix. Siamo nelle Ardenne, niente pavè ma cotes, ovvero
montagne, o meglio colline, o meglio muri brevi ma durissimi che a ripetizione spezzano il
fiato e le gambe ai corridori. Quest’anno ce ne sono 11 disseminate lungo i 257,5 chilometri
del percorso. In pratica, come suggerisce il nome, la corsa è un’andata e ritorno tra Liegi e
Bastogne. I chilometri totali sono 257,5, pieni di insidie, sia altimetriche che tecniche. Ciò
che caratterizza la Liegi è la durezza delle salite, insieme alla lunghezza. 5000 metri di
dislivello, come un tappone dolomitico. La Redoute è il passaggio simbolo, ma non sarà
decisiva per stabilire il vincitore. 2 chilometri al 9% di pendenza media, che fanno una
grandissima selezione ma che ormai difficilmente sono il palcoscenico di scatti decisivi. La
Cote de la Roche aux Faucons da qualche anno è diventata il punto più importante di tutta la
Liegi. La corsa si vince qui, perché recuperare dopo è possibile ma difficilissimo, visto che in
cima il gruppo di solito arriva stremato e spezzettato.
Il Saint-Nicolas, la salita degli italiani, rappresenta l’ultima spiaggia per quei corridori che si
sentono battuti allo sprint, ma avere la freschezza necessaria per una scatto a questo punto
della corsa è difficile, soprattutto di questi tempi. Il finale è quello ormai stabilizzato negli
ultimi anni, con l’ultimo chilometro e mezzo in leggera ascesa fino al rettilineo finale
collocato ad Ans, un sobborgo di Liegi.
Le undici cotes iniziano dopo i primi 70 km e terminano a ridosso del traguardo con la Cotes
di Saint – Nicholas chiamata anche la Salita degli Italiani perché attraversa un caratteristico
sobborgo di Liegi abitato da italiani emigrati in Belgio nel dopoguerra. Case disposte a
scaletta ai lati della stradina che si inerpica con una vertiginosa impennata lunga 1.200
metri per un dislivello medio che sfiora il 9 per cento.
Per gli amanti della precisione, mi sembra che qualcuno ce lo abbiamo nella redazione
dell’Eco, ecco la collocazione delle Cotes sul percorso:
Km 70.0 - Côte de La Roche-en-Ardenne - 2.8 km al 6.2 %
Km 116.5 - Côte de Saint-Roch - 1.0 km all’ 11 %
Km 160.0 - Côte de Wanne - 2.7 km al 7.3 %
Km 166.5 - Côte de Stockeu (Stèle Eddy Merckx) - 1.0 km al 12.2 %
Km 172.0 - Côte de la Haute-Levée - 3.6 km al 5.7 %
Km 185.0 - Col du Rosier - 4.4 km al 5.9 %
Km 198.0 - Côte du Maquisard - 2.5 km al 5 %
Km 208.0 - Mont-Theux - 2.7 km al 5.9 %
Km 223.0 - Côte de La Redoute - 2.0 km all’ 8.8 %
Km 238.0 - Côte de La Roche aux Faucons - 1.5 km al 9.3 %
Km 252.0 - Côte de Saint-Nicolas - 1.2 km all’ 8.6 %
La nostra Liegi, mia e del Trapper purtroppo per l’occasione sofferente ma fedele e sempre
presente, comincia con la presentazione di squadre e corridori il giorno precedente la gara
sabato 21 aprile. Di buon mattino lasciamo casa Tanzilli a Charleroi e la consueta calda ospitalità
di Rocco e Marie France per portarci a Liegi : ci gustiamo tutta la cerimonia con le squadre
chiamate da uno speaker pazzesco per la capacità di sparare a mitraglia nomi e notizie di
ognuno dei corridori che si succedono sulla pedana. Il giorno dopo, domenica 22, torniamo a
Liegi per goderci la partenza della gara con i corridori che prendono la strada per Bastogne,
autentica boa della corsa che li vedrà dopo circa 100 chilometri invertire la marcia per tornare
verso Liegi. Ed è proprio nel ritorno verso la capitale della Vallonia che la corsa si anima e
comincia il su è giù per le alture delle Ardenne.
La squadra di Nibali
Io e Trapper dopo attento studio di
planimetria e altimetria della corsa puntiamo
sul paesino di Stavelot, luogo mitico che si
trova fra due cotes ravvicinate, quella di
Stockeu dove si erge la stele in onore di
Eddy Merckx pentavincitore della Liegi, e
quella di Haute Levée. Stavelot si rivela una
scelta felice, non solo perché dal punto di
vista ciclistico ci consente di vedere i
corridori transitare sia fra le case del piccolo
abitato che sulla vicina durissima salita, ma
anche perché ci rivela uno spaccato del
Belgio profondo, oseremo dire. Quella parte
del paese lontana dai luoghi turistici,
campagnola, reale. E’ ora di pranzo e
nell’attesa della corsa ci infiliamo in una
piccola locanda che sembra uscita dalle
pagine dei fratelli Grimm. Ci sediamo ad un
tavolo senza tovaglia, ci si avvicina una
signora di media età che ci offre uno scarno
menù. Inevitabile la scelta di carne e patate
fritte, queste ultime autentica istituzione in
Belgio, servite comunque e dovunque.
Mentre Mario armeggia con gli apparecchi
fotografici mi avvio verso il bagno. In fondo
a sinistra, come al solito, ma ci sono due
porte. Apro quella sbagliata e mi trovo
davanti ad una stalla in cui un signore in
stivali di gomma e grembiule è seduto
davanti ad una montagna di patate che
sbuccia e lancia in due enormi recipienti di
plastica colmi d’acqua.
Resto sorpreso da una scena uscita dal
passato, vista la situazione, il luogo e il tipo
di lavorazione. In tempi di buste di patate
surgelate già pulite e tagliate o, nella
migliore delle ipotesi, di macchine automatiche, vedere il tizio che scopriamo essere il marito della
signora che serve a tavola pulire e tagliare le patate a mano è stupefacente. Torno al tavolo e
mentre racconto la scena a Mario il pulitore di patate arriva con il rifornimento per la cucina che
provvede a friggere senza soluzione di continuità le patatine. Quando arrivano sul nostro tavolo
sono fragranti, calde, cotte a puntino, vere.
Dopo aver spazzolato la nostra colazione lasciamo la locanda per posizionarci sul percorso distante
pochi metri. Io risalgo la Cotes di Haute Levée, Mario resta giù per le foto. Arriva la carovana,
corridori sgranati, cerco le maglie di Nibali e Cunego, i nostri favoriti. Poi via di corsa in auto per
anticipare la corsa alla storica Cotes de La Redoute. Un tratturo che risale una collina, un cambio di
pendenza micidiale, pioggia e terra, tendoni con tv e birra a volontà, gonfi di tifosi. E’ la terra di
Gilbert, il campione belga vincitore del 2011 nato proprio ai piedi de La Redoute. Entusiasmo alle
stelle, nei volti dei corridori si legge la fatica frutto anche dei 238 km che già hanno percorso. La
selezione è dura ma la corsa è ancora tutta da decidere. Noi ci fiondiamo tramite autostrada sulla
Cote di San Nicholas, la salita degli italiani appunto. Sentiamo da radiocorsa che Vincenzo Nibali è
partito all’attacco, intravedo la maglia vedere della Liquigas e in effetti il messinese ha fatto il vuoto.
Scollina per primo ma si vede che soffre. Mancano appena 5 chilometri e mezzo al traguardo dalla
cima di Saint Nicholas, ancora una volta ci lanciamo in macchina cercando di precedere i corridori
sul traguardo di Ans ma un contrattempo ci ritarda e quando arriviamo nei pressi dello striscione
dell’arrivo sta tagliando il traguardo Gasparotto. Per un attimo l’illusione di poter festeggiare la
vittoria di un italiano, invece un signore si gira e mi dice che ha vinto Iglinski. Gli chiedo di Nibali e
lui secco “deuxième”. Secondo. Ma come, lo avevamo lasciato tutto solo a 5 chilometri ? Sul
maxischermo riesco a rivedere le ultime fasi mentre il solito speaker, lo stesso della presentazione,
snocciola alla De Zan tutto l’ordine d’arrivo sino alla fine. Scopro la verità, amara per noi italiani:
Nibali è stato ripreso e superato ad appena 1200 metri dall’arrivo da Iglinski. Chi è Iglinski ? Un
Kazako dell’Astana, maglia celestina e gialla, odore di zolfo. Squadra fatta con i dollari del petrolio
del Kazakhistan.
Anche Gasparotto è un Astana ed è arrivato terzo. Podio tutto italiano tranne il primo posto.
Kazakho. Ma come, quando giocavamo alle corse con i tappi dietro casa mia i kazhaki non
c’erano. Mi fermo e guardo una bella ragazza dell’organizzazione che mi sorride e mi dice in
un morbido francese che l’ingresso per la stampa e “arrière le bus orange”. Non so perché
abbia pensato che io fossi un giornalista, forse solo perché mi ero fermato un attimo a parlare
con un inviato della Gazzetta che conosco.
Alla fine con Mario riprendiamo la strada di casa con negli occhi i colori, gli umori, i
paesaggi, le storie di una giornata straordinaria. Una di quelle che ti lasciano dentro
sentimenti e riflessioni mai banali, che fra un mese, un giorno, tre anni all’improvviso
rispunteranno fuori. Ah, dimenticavo. Ci resta anche il sapore delle patate fritte di
Stavelot. Ci ripenso mentre stacco ancora una volta uno dei cartelli indicatori della
corsa. Un altro che finirà nel mio studio fra lo scuotimento di testa di Patrizia. In questo
mondo sempre più assurdo e incomprensibile lasciamo a ciascuno di noi lo spazio per le
patate di Stavelot e gli inutili cartelli delle corse ciclistiche. Piccoli, grandi, antidoti per
curare il male di vivere.
Alla prossima.
Ferdi
Servizio fotografico di Mario Trapper