L’Eco di Roccasecca
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Anno 18, n. 86		                                            Maggio 2013 Anno 18, n. 86		                                            Maggio 2013 Archivio storico de L’Eco di Roccasecca Dal n. 17 del novembre 1998  Questa volta si va molto indietro nel tempo, addirittura al numero 17 dell’Eco di Roccasecca, un’edizione rara, monografica, dedicata interamente alla Ciociaria, con storie, aneddoti, saggi, sia in italiano che in dialetto ciociaro. Sicuramente molti attuali lettori non hanno mai avuto modo dio sfogliare queste pagine prima d’ora.  Ancora alcune pagine "auliche", questa volta di Anton Giulio Bragaglia (Ciociaria, 1957) che ci propone un saggio in cui tratta di cose ciociare tra la linguistica, la storia, la geografia, l’epica, il teatro, la poesia e, soprattutto, i sentimenti di un innamorato perso di questa terra. Ben volentieri rinfreschiamo queste pagine scritte lontane nel tempo e le consegniamo ai nostri lettori. Il titolo ricorda, curiosamente, un romanzo di grande successo negli anni ‘70 ("Porci con le ali"), ma è superfluo precisare che questo testo fu scritto parecchi anni prima. Poteri della Ciociaria! Simpatica anche la dedica a Mercurio, considerato dall’ autore "ciociaro doc"... dell’Olimpo! Segnaliamo che in questo saggio la parola ciocia al plurale viene indicata senza la "i" (cioce), contrariamente ad altri testi.  CIOCE CON LE ALI Le cioce con le ali le portava il Dio Mercurio, ciociaro mediterraneo.  La carta geografica della Ciociaria è una fantasiosa mappa letteraria dai confini vagamente sfumati. Questa vaghezza desta contrasti e polemiche. Per fortuna la terra nostra sta sempre sotto il segno di Circe, maga burliera, che possiede il potere di mutare le forme e l’essenza delle cose viventi. Gli scherzi riferiti da Omero usa farli ai forestieri, non ai compaesani. Circe, comunque, non u muta le montagne e i fiumi che, grosso modo, delimitano il suo regno temporale e magico. Per quanto svanito nei contorni, il Regno Ciociaro - che raccoglie l’eredità dei Volsci, degli Ernici e degli Equi - si estende dai Colli Albani ai Monti Aurunci, dall'Appennino Abruzzese al mare.  I romani chiamano ciociari persino i sabini di Anticoli Corrado. Si sa che la Ciociaria è il Lazio Aggiunto, di qua dalla cornice di vulcani spenti che sbarra la Campagna romana. A cominciare da Roccapriora, la catena dei Lepini forma la spina dorsale di questo vasto corpo ovale. (La Ciociaria trae il nome dai calzari romani, benché non siano una caratteristica strettamente sua: li portano, uguali, i contadini calabresi come quelli del basso Danubio. I calzari romani non calpestarono soltanto il Latium novum, ma il mondo antico).  Confine ciociaro con Roma, cioè confine del Lazio Aggiunto, è riconosciuto da tempo antico l’Aniene, donde Subiaco è ciociara e, con essa, la bella Gina, ninfa dei castagni che vanno in corsa verso Fiuggi. L’alta muraglia dell’Appennino si leva, di là da Filettino, a separar l’Abruzzo dal Lazio, segnando i confini fra Avezzano marsica e Sora ciociara. Nell’ aspro cumulo di monti, colli e colline che s’accatastano all'interno, abbiamo Monte San Giovanni Campano, che farebbe diventar Campania il cuore della Ciociaria, se non si trattasse di denominazioni politiche come quella di Sezze Romano, sito accanto a Maenza, augusta sede di Camilla regina dei Volsci: la nostra regina.  Dove la Ciociaria finisca verso i Monti Aurunci, è difficile fissare. Già più volte sono state sollevate dispute in riguardo, e ciascuno è restato a pensarla a proprio modo. Vale l’opinione generale. Sappiamo che Fondi, al confine delle "Due Sicilie" era sotto i Borboni; ma gli abitanti di Fondi si ritengono ugualmente Ciociari.  I loro portavoce sono Libero De Libero, Peppe De Santis, Domenico Purificato e Aristide Rotunno: quattro Campioni intellettuali di quel nobile Castello.  Una fusione del Lazio Nuovo con la Campania risulta dalla mescolanza degli usi e delle cucine, di comunione di leggende e di canti, pur nella distinzione delle stirpi - allora popoli, - che furono ostili tra loro, ma sempre alleati contro Roma. Eppure Osci e Volsci, dopo la Repubblica, frequentarono Roma assiduamente. Anche col loro teatro. E i Romani ci si divertirono. Fu allora che cominciarono a ridere dei Volsci e degli Osci. Oggi seguitano. Quando un napoletano qualunque, o un burino, apre bocca, la gente ride; non importa cosa abbia detto. Ma il napoletano non si offende se gli si ride in faccia. Se' ne compiace come di un successo personale. Allorché dico, con naturale semplicità, "Sono ciociaro" qualche fesso mi guarda sbalordito dalla disinvoltura mia. Per lui è come se un tipo ridicolo dicesse con indifferenza: "Sono ridicolo". L’antica farsa Romana da tremila anni ha sviluppato in un clima ridevole il personaggio del Ciociaro che, nella sua realtà, è un muso duro, di carattere aspro, interessato agli affari (alla robba). Ma il nostro dialetto contadinesco, tra romano e napoletano, risulta curioso a Roma: fa " provinciale", fa "burino". Di qui il riso. Per quanto a Roma, prima di Leone X, la parlata popolare trasteverina fosse identica a quella dei Castelli Romani, cioè prossima al Ciociaria, la rustichezza dei linguaggi usati nel Lazio Nuovo era maggiore di quella che fu, poi, quando venne toscanizzata. E risultava più buffa.  A Roma si parlò toscano; nel Lazio Nuovo (o Ciociaria) si seguitò a parlare con la lingua originale nelle intonazioni rurali proprie. Il nostro linguaggio restò distante dal latino, come lo era al tempo dell’impero. I Volsci e gli Osci, secondo gli antichi scrittori, divertivano i Romani, a quello stesso modo che l’abruzzese Riento li spassava, pochi anni orsono, descrivendo nella sua parlata provinciale, gli animali del Giardino Zoologico; o, come faceva Petrolini, parlando ciociaro in "Lumie di Sicilia" (glie l’avevamo insegnato io ed Apolloni, l’antiquario nostro compaesano); o come fanno tutti i macchiettisti partenopei discesi da Nicola Maldacea. Le parlate burine o napo1etane hanno spassato i romani, quanto oggi li diverte la parlata umbra di Talegalli alla Radio.  L’eredità delle Maschere, loquacissime in dieci diversi linguaggi provinciali, oggi è conservata dai mimi dialettali, e rappresenta un aspetto della nobiltà di ciascuna Regione: specchio spiritoso del carattere di ognuna. Il Ciociaro fa sorridere, come il Campano fa ridere; la furbizia del primo e le amenità del secondo erano la ragione comica delle farse popolari arcaiche. Essi, in fondo, rappresentavano il primo Zanni furbo ed il secondo Zanni sciocco (finto). Il teatro volsco può essere considerato sullo stesso piano di quello Osco perché la storia ci dice che si alternavano. A Roma «osce et volsce fabulabantur, nam latine nesciunt»: vale a dire i commedianti delle farse Atellane recitavano in osco e in volsco, a Roma, non sapendo essi la lingua latina; e i dialetti loro erano, all’incirca, compresi dai romani. Come i siciliani e i napoletani d’oggi italianizzano il loro linguaggio intercalandovi frasi italiane. e come i Commedianti dell’Arte a Parigi parlavano italo-francese, così i mimi ciociari e capuani si arrangiavano a mettere parole latine nell’osco e quando i buffoni erano ciociari, nel vosco. Il temperamento, i caratteri lo spirito dei mimi di Frosinone o di quelli dell’Acerra erano gli stessi: ciò che venne in ogni tempo riconosciuto.  L’abate Perrucci, maestro dell’ improvvisa commedia atellanica, scrive: " Era la detta lingua osca una lingua latina alterata nei vocaboli e servì di riso, appunto come oggi la napoletana, scelta per lo ridicolo, come prova Camillo Pellegrino". Sia detto lo stesso per il volsco. Il Minturno scriveva nell'Arte Poetica: "Quelle commedie, le quali in questa città si chiamano Cavaiole, sono simili alle Atellane. Le farse volsche e quelle osche erano tutt’una cosa, in quanto a genere, e come tutt’una cosa furono le commedie di Zanni che seguirono il Medioevo".  Benedetto Varchi in «Ercolano» (1561) presumeva: "Credo che i nostri Zanni facc iano più ridere che i mimi (osci e volsci) non facevano... e avanzino, (cioè siano superiori a) quelle commedie che dalla città di Atene si chiamavano Atellane".  B. Davanzati nella postilla al Libro IV delle opere diTacito riconosce la identità di Osci e Volsci, Atellani, Mattaccini, Zanni e Ciccandoni.  Il chiosatore della Vajasseide del Cortese spiega: "Le vecchie farse erano una "sciorta di composizione simmole alle commedie atellane, perché non hanno nesciuna forma di rappresentazione drammateca: né tampoco se ponno assemegliare co’ li poema antiche: chiù priesto èglie na certa spezie de satera". Nella farsa volsca correva sangue di Giovenale d’Aquino, e per addolcire questo sangue il nostro poeta pensava a una casetta in Ciociaria. Serene ed accoglienti, le nostre fertili campagne ci ricordano ancora la Satira Terza. Io vivo all’estero e a Roma. La Ciociaria è per me, vicina e lontana; però vado spesso nella sua direzione, a Tuscolo, con De Libero:  O Ciociaria colore di prugna sospiro di menta, sapore di prugna, che nelle valli ti vanti dei castani e parli col nitrito dei cavalli...   Dopo aver dato un’occhiata alla mia regione da Tuscolo, come faceva il compaesano Cicerone, vado a cena a Rocca di Papa perché lassù la cucina sa di Ciociaria. Lì sotto si stende lo stretto territorio del Lazio Antico dominato da Albalonga, confuso nelle altre leggende con la mitica Troia.  Dove questo regno si dividesse, oltre Ardea, da quello della regina Camilla, non venne conosciuto. La pianura Pontina testimoni coi suoi istrici giganti sotto gli elci millenari, la preistoria che sopravvive nell’ immanente potere di Circe. Dall’altro lato l’Acropoli di Alatri, più antica di quella di Atene, sta saldamente arroccata a dominar le dirute acropoli dei paesi vicini: Ferentino, Veroli, Arpino. Qui arretriamo in millenni più oscuri di quelli etruschi, e tocchiamo con mano regni primevi.  Quando i macigni dei paesi volsci erano bianchi di pietra appena tagliata, la valle del Tevere era un pantano misto alle Paludi Pontine e la terra dove s’erge l’alma Roma risuonava di rane. Il mio imperialismo sentimentale, fondato sui miti, sull’anima del paesaggio e delle genti, nulla teme perché non chiede approvazione.  Dietro i Colli Albani comincia la Ciociaria e, da quelli ben staccato, Velletri vi appartiene con la sua Gens Giulia. Chiaro è che Cesare la malaria se la prese andando a caccia a Cisterna, dove, allora, le zanzare erano grosse come beccacce. Nei libroni ufficiali che volgarizzano la storia leggerete tesi assai più spericolate di questa piuttosto ovvia. Oggi la maga Circe e il Divo Giulio sono numi della Ciociaria di Campagna; mentre Cicerone si scaglia contro Cafo mozzarellaro del Garigliano; D. Giulio Giovenale, d’Aquino, sta lì a sfottere. Secoli dopo, Pascarella, figlio di due ciociari, diventa poeta romano come Giovenale.  Questo discorso più sentimentale che geografico, più romantico che storico, benché scritto con aria di fantasia divagata, farà inorridire gli snob che sdegnano il nome dei Ciociari, temendo d’esser riconosciuti cafoni (discendenti di cafo). Io che questo timore non ho, voglio essere detto ciociaro. Giacché sto a casa mia nelle capitali d’Europa, d’Asia e d’America, dove sono andato e trovato più volte in vita di ciociaro emigrante.  Anton Giulio Bragaglia