L’Eco di Roccasecca
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Anno 18, n. 87		                                            Agosto 2013 Anno 18, n. 87		                                            Agostoo 2013
Vecchie storie roccaseccane  Vino di contrabbando  Dedicato alla memoria della Signora Concetta Torriero Di Ruzza    A quel tempo, parlo della fine degli anni cinquanta, erano davvero in pochi ad avere il frigorifero in casa; gli unici a possedere questi meravigliosi elettrodomestici erano essenzialmente i bar e qualche rara osteria, dove venivano impiegati, ovviamente, per conservare gli alimenti, le bibite, il latte … ed anche per i gelati. Si trattava comunque di congegni dalle dimensioni enormi, alcuni interamente in legno, con sportelli muniti di piccoli oblò per guardare dentro che sembravano quasi quelli dei velieri. Poi maniglie, cerniere, chiavarde e rubinetti per spillare il vino. Tutto d’ottone.  Tra quello che veniva in essi custodito c’era anche il ghiaccio, confezionato in barre, lunghe più o meno come il pane da un chilo, quello che si comprava dal fornaio Salvitti, sulla destra risalendo Via Piave. Solo che erano di ghiaccio. Quando, d’estate, bisognava rendere l’acqua un po’ più fresca, ed anche un po’ più gustosa da bere, allora papà ne comperava un pezzo, giusto quanto se ne poteva avere con 10 lire, e mi mandava a prenderlo al bar della piazza, proprio davanti alla stazione.  Se ero stato buono, me ne dava altre 10 perché mi prendessi anche un gelatino, che avrei mangiato per strada, mentre portavo il ghiaccio a casa. Il barista prendeva la barra da uno sportello in basso e, dopo averla poggiata sul ripiano d’acciaio, la tagliava con una sega a mano mentre con l’altra mano la teneva ben ferma.  Prima però ci aveva messo sopra uno straccio per non bruciarsela per il troppo freddo.  Eh già, perché il ghiaccio era talmente freddo che dava la stessa sensazione del fuoco: dopo un po’ non ci si poteva più stare con la mano poggiata sopra! Finita quell’operazione, che produceva sempre una miriade di piccoli cristalli di ghiaccio che volavano un po’ dappertutto, mi dava quel parallelepipedo semitrasparente proteggendolo con un foglietto di carta, di quella fina e leggera che si usava anche per avvolgere il pane. Ghiaccio e gelato a me, venti lire a lui e me ne tornavo di corsa verso casa leccandomi quel gelatino. Se ero stato cattivo il gelato non c’era e allora leccavo il ghiaccio che però non sapeva proprio di niente. Arrivato a casa papà lo rompeva col martello mettendolo in un imbuto di alluminio infilato nel collo di un bottiglione, poi, da un altro bottiglione, vi versava sopra l’acqua da bere, che magari era stata presa il giorno prima alla Sabbatina, un posto vicino al fiume dove c’era una sorgente, oppure attinta al pozzo di Pirro proprio davanti casa. Otteneva così un’acqua freschissima che, con due bustine di Idrolitina, una rosa e l’altra azzurra, diventava addirittura frizzante e, finalmente, potevamo sederci a tavola a mangiare le zite al sugo che intanto mamma aveva preparato. Se il sugo poi lo aveva fatto la signora Concetta, che abitava al piano di sotto e cucinava alla ciociara, col lardo e tutte le altre squisitezze dosate sapientemente nella pentola di coccio, e ce ne aveva mandato su un poco ad assaggiare, allora le zite erano ancora più buone e capivamo che in Ciociaria si stava proprio bene. Il vino no, papà non lo rinfrescava in questo modo perché diceva che così si annacquava e che “poi non era più buono”.  Non è che fosse un vino di lusso tipo Chianti o Barbera e neanche un vino qualsiasi dei Castelli Romani, era solo un vinello un po’ aspro fatto in casa da contadini suoi amici, ma che a papà piaceva ugualmente. Senz’acqua però! Di solito andava a comperarlo di notte, dove non so. Partiva su di una vecchia bicicletta da donna che tenevamo in cantina, dove le tenevano tutti, prendendo per Via Domenico Torriero, strada bianca e larga che portava al passaggio a livello 122, il posto più lontano che allora conoscessi.        Poi continuava oltre la ferrovia, pedalando su quella vecchia bici con la damigiana in mezzo alle gambe che proprio non riuscivo a capire come facesse a non romperla, e, in questo modo, si addentrava sempre più in mezzo a campagne buie e lontane dato che a quei tempi la corrente elettrica non l’avevano ancora portata nelle case dei contadini. Figuriamoci se potevano illuminare le strade di campagna! In quelle viuzze lontane il percorso era ancora più stretto e tortuoso e già di giorno bisognava conoscerli bene quei posti per non perdersi. Figurarsi la notte, alla fioca luce del fanale della bici che, quando rallentava, diventava ancora più debole, per poi spegnersi completamente quando si fermava. Non capivo neanche il motivo per il quale papà scegliesse sempre notti senza luna per fare quel lavoro. Dopo l’ultimo lampione, poco dopo l’angolo del Palazzone, il debole raggio di luce proiettato dal fanale anteriore si scorgeva ancora per qualche istante e sembrava che scandagliasse la strada per evitare sassi e buche. Poi, prima ancora che papà superasse la casa di Cupone, più nulla. Quella debole luce spariva completamente ed era come se mio padre fosse passato attraverso un sipario nero dietro al quale poteva accadere di tutto. Allora rientravo a casa di corsa salendo le scale due gradini per volta e tornavo da mamma che dopo un po’ cominciava a dire “Non so proprio perché deve fare così, lo pagasse sto’ dazio, che sarà mai!“ Poi iniziava ad andare avanti e indietro sempre più nervosa tra la cucina e la porta d’ingresso tendendo l’orecchio ogni volta che sentiva qualcuno salire o scendere. “Ma guarda un po’ se si vede! “ mormorava scrutando, da dietro i vetri della finestra, le campagne che si stendevano a perdita d’occhio oltre la ferrovia. Ma in quelle notti di pece non si vedeva niente, quasi quasi neanche la ferrovia! Quand’era ormai passato un tempo lunghissimo, forse delle ore che però sembravano secoli, si sentiva finalmente il rumore delle chiavi che giravano nella toppa della porta d’ingresso e papà rientrava tutto contento per aver fatto il rifornimento del vino riuscendo a portarlo a casa da quei posti lontani e bui dov’era andato su di una vecchia bicicletta da donna. E senza rompere la damigiana ! Rideva contento e lo faceva di certo perché era tornato nel calore della sua famiglia, ma, soprattutto, perché era riuscito ancora una volta a fargliela al daziere che, guarda caso, aveva l’ufficio proprio all’inizio della strada dove abitavamo, però dalla parte opposta a quella dove lui era andato.  Questo era il vero motivo della sua allegria, ma lo capii solo più tardi, diventato un po’ più grande.                     La stazione di Roccasecca, ed il “palazzone”  in una cartolina anni ’50, con tanto di littorina sul primo binario. (clicca per ingrandire l’immagine)  Quando il vino che serviva era poco, o papà non aveva tempo, allora mandava me, con un fiasco o un boccione, a prenderlo da gente che abitava vicino a casa nostra e che lo produceva. Un po’ per la famiglia e un po’ per venderlo. Magari mi ci mandava anche di giorno, ma sempre raccomandandomi di evitare l’ufficio del daziere che, se mi fermava, ci avrebbe fatto passare chissà quale guaio. Costui era un signore distinto, dai capelli neri e lisci, vestito sempre come se fosse domenica che se ne stava fermo davanti alla porta del suo ufficio sorridendo a tutti ma parlando a pochi. Se non era lì fuori allora stava dentro a scrivere chissà cosa sul tavolino di una stanzetta spoglia, poi, quando riusciva, ricominciava a guardare a destra e a sinistra con apparente noncuranza. A me non mi considerava neanche, fortunatamente! Così si andava avanti e tutto filava liscio come l’olio, tranquilli noi e tranquillo lui che certamente si sarà anche chiesto come mai la nostra famiglia bevesse così poco a dispetto della nomea che i Friulani avevano. Ma non disse mai nulla. Tutto cambiò il giorno in cui arrivò una lettera dalla Francia. Era una lettera di nonno Luigi che preannunciava il suo arrivo per Pasqua. Saremmo stati assieme una settimana e tutti eravamo contenti, dato che da molti anni non veniva a trovarci e che forse era la prima volta che lo faceva da quando eravamo andati ad abitare a Roccasecca. Lettere ne scriveva tante raccontandoci sempre più o meno le stesse cose e sempre allo stesso modo: “Caro Duilio, io sto bene come altrettanto spero di voi…” Continuava poi parlando del suo lavoro, dei dolori di nonna Emilia che soffriva di sciatica e di zio Dante che ancora non aveva trovato una fidanzata italiana. Erano, ripeto, più o meno erano sempre le stesse cose che, quando la lettera arrivava, erano già passate da un pezzo. Più di una settimana ci voleva dalla Francia, a volte anche due, mentre dal Friuli il tempo che occorreva era meno, tre o quattro giorni. Massimo cinque. L’arrivo preannunciato del nonno diede nuovo slancio ai lavori domestici ed alle pulizie pasquali che, anche se la casa era piccola, si dovevano pur fare. Mamma stava continuamente a cercare ricette dalle altre signore del palazzo per preparare pranzi e pranzetti, papà era sempre più in contatto con i suoi amici contadini per comperare quanto di meglio si potesse trovare pagandolo, se possibile, a buon mercato. Polli, conigli, verdure, uova ed ovviamente … anche vino. Era talmente contento e deciso a fare le cose per bene che era addirittura entrato per la prima volta nell’ufficetto del daziere a pagare la tassa sul prezioso nettare per poterlo andare a prendere, poi, con tranquillità, dove voleva, quando voleva e, soprattutto, alla luce del sole. Finalmente il gran giorno arrivò e con lui anche nonno che aveva portato dalla Francia una valigia pesantissima piena di ogni ben di Dio. Tavolette di cioccolata, pacchi di zucchero in quadretti, barattoli di mostarda piccante ed anche qualche giornale, soprattutto per me che dovevo cominciare a studiare il francese. Mi portò anche il Meccano ed ero l’unico ad averlo nel palazzo oltre a Nino, un mio amichetto, che pure lo aveva avuto da suoi parenti emigrati in Francia.                 Una scatola del mitico Meccano francese   Tutto concorreva quindi a che le vacanze pasquali fossero perfette e venne anche il giorno del grande pranzo che ci avrebbe visti felici e contenti, finalmente riuniti, dopo tanto tempo, attorno ad una tavola imbandita.  Mamma aveva preparato la lasagna che certamente non era un piatto friulano, ma l’aveva fatta benissimo grazie ai consigli ed all’aiuto delle sue amiche. Tutto era stato fatto in casa a cominciare dalla sfoglia di pasta preparata con quelle uova freschissime che papà aveva portato dalla campagna, alla besciamella e a tutto il resto.  Mancava solo il vino, ma il dazio era stato pagato e non c’era da preoccuparsi. Partimmo quindi a prenderlo di buon mattino da certi contadini che abitavano verso la Sabbatina e ne comprammo cinquanta litri, mettendolo in una damigiana impagliata caricata su di un carrettino a mano che papà si era fatto prestare dai colleghi della ferrovia.                      Una cartolina della zona della stazione di Roccasecca (sullo sfondo gli edifici del dopolavoro-cinema, della stazione e del palazzone).  La strada che domina la foto porta a piazza Risorgimento dove successe il fattaccio della damigiana. Il padre di Renzo ha dovuto per forza percorrerla, provenendo da destra dove c'era il passaggio a livello che portava alla Sabatina. (Clicca sulla foto per ingrandirla)   Il ritorno fu tranquillo fino alla piazza davanti alla stazione che intanto si era popolata delle persone solite ad incontrarsi lì, al mattino dei giorni di festa, per parlare e per fumare. Un po’ il salotto buono di Roccasecca Scalo. Papà passava col suo carrettino con sopra la damigiana salutando e rispondendo ai saluti, ma forse fu proprio per far questo ad un certo momento si distrasse. Esattamente sulla penultima curva, prima di imboccare la strada di casa, non vide una buca dell’asfalto: il carrettino sbandò e la damigiana cadde a terra rompendosi tutta. Da fuori non sembrava neanche rotta, ma dentro il vetro non c’era più e non c’era più neanche il vino che aveva allagato quasi tutta la strada. La gente ci guardò da lontano, qualcuno sorrise, qualcun altro si avvicinò per vedere se si poteva recuperare qualcosa, ma che vuoi recuperare! Anche il daziere si avvicinò cercando di aiutarci o quanto meno di consolarci, ma non c’era proprio più niente da fare.   Gli unici contenti saranno stati i topi che certo non si aspettavano tutto quel nettare piovuto dal tombino! “Se saranno ‘mbriacati tutti!” disse qualcuno. Quando tornammo a casa eravamo tristi e mogi soprattutto perché c’era nonno che ci aspettava e mamma aveva preparato tante cose buone che avremmo dovuto mangiare bevendo acqua. Ma non fu così. Eravamo già a tavola allorché qualcuno bussò alla porta e, quando andai ad aprire, c’era Concetta con un boccione di vino rosso in mano, di quello buonissimo che faceva lei o qualcuno dei suoi parenti.  “Tiè, vedi se questo ce piace a tu’ padre” disse con quel suo sorriso gentile e se ne andò via di corsa per non essere ringraziata. Quel giorno il pranzo fu ancora più buono e capimmo, una volta di più, che in Ciociaria si stava proprio bene.   Per L’Eco di Roccasecca Renzo Marcuz 2 giugno 2013
La Signora Concetta
Bustina “originale” anni 60 di Cristallina, ancora integra (archivio personale di cose inutili del Direttore)
Palazzone