L’Eco di Roccasecca
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Anno 18, n. 88		                                            Ottobre 2013 Anno 18, n. 88		                                            Ottobre 2013
L’Eco di Roccasecca
TRE ANEDDOTI DELLA ROCCASECCA ANNI ’50  RACCONTATI DA RENZO MARCUZ  Gek Dedicato a mio fratello   Da piccolo, prima a Roma dove sono nato e poi a Roccasecca dove ho abitato, ho vissuto per molti anni da solo con i miei genitori e debbo dire che in parte mi ero anche abituato. Sentivo però la differenza rispetto a tutti quegli amici che, specie a Roccasecca, avevano famiglie piene di fratelli e di sorelle.  Mi sembravano più forti e felici, forse per la loro possibilità di aiutarsi e sostenersi reciprocamente. Io no, solo ero e da solo dovevo cavarmela. Per tutto. Un mio pensiero ricorrente era, quindi, che la presenza di un fratellino, in un certo senso, avrebbe potuto giovarmi; con lui avrei fronteggiato meglio le insicurezze che ogni tanto mi capitava di provare e forse avrei anche potuto condividere i timori che invece, ora, dovevo vincere da solo. Poi, un giorno, quando fosse cresciuto, anch’io certamente avrei potuto essere aiutarlo e ci saremmo voluti chissà quanto bene. Purtroppo però non arrivava e nessuno poteva farci niente. Nel Palazzone dei ferrovieri, dove abitavamo, c’era solo un altro figlio unico, Claudio, di due anni più piccolo di me. La mamma, Ilvia, era sorella del medico condotto e suo padre, Mario, era un collega di papà. I genitori di Claudio simpatizzarono immediatamente con i miei quando arrivammo a Roccasecca ed ogni tanto stavamo tutti assieme a pranzo o a cena. Per non parlare delle diverse gite che ci videro spensieratamente uniti.       Tutto andò più o meno così fino al mio decimo compleanno quando, era l’estate del ’58, la nostra casa cominciò ad essere frequentata da una signorina simpatica che abitava in una camera in affitto vicino alla stazione.  Si chiamava Angela e faceva un mestiere strano, mai sentito prima di allora, era infatti una levatrice. Con lei mamma divenne amica, sempre più amica dato che questa signorina, poco più che trentenne, iniziò a visitarci assiduamente ed io inizialmente non capivo il perché, ma non mi dispiaceva poiché era davvero simpatica. Mi affascinava con i racconti sul suo paese, in Abruzzo, dove, con l’aiuto di binocolo, si riuscivano a vedere gli orsi bruni che camminavano tranquillamente su monti lontani.   Dopo le visite che faceva a mamma, le piaceva accomodarsi un poco sulla sdraio che avevamo in camera da pranzo, vicino alla radio. Ascoltava per qualche minuto le notizie del giorno e un po’ di musica. Poi se ne andava. Capii, a poco a poco, che quelle visite erano dovute al fatto che presto non sarei più stato un figlio unico e che avrei avuto anch’io il tanto atteso fratellino.  Non ad una sorellina pensavo, chissà perché, ma che nascesse una sorellina mi sembrava molto poco probabile. Comunque in quel periodo eravamo felicissimi. Durante i pomeriggi estivi di quel lontano 1958 mamma prese a preparare il corredino, facendo soprattutto lavori a maglia seduta con le altre donne, mogli e figlie di ferrovieri, nel giardino adiacente al Palazzone. Poi continuò in casa, dato che mio fratello sarebbe nato d’inverno. Di quel corredino ricordo le fasce che dovevano servire per evitare che al neonato venissero le gambe storte. Mamma ne aveva preparate molte perché allora così si usava, a me toccava aiutarla ad arrotolarle prima che le mettesse via. Tutto continuava più o meno normalmente, a parte il fatto che mamma cominciò ad usare vestiti sempre più larghi ed anche un po’ ad ingrassare dal momento che ora doveva mangiare per due. Per lo meno così la consigliavano le sue amiche e tutti le suggerivano qualcosa per il meglio sugli argomenti più disparati.  Sembrava quasi che, con lo scorrere dei giorni, il paese si stringesse sempre più attorno a noi anche se, tutto sommato, eravamo solo dei forestieri che parlavano con l’accento del Nord. Ma a Roccasecca questo non contava, ed ancor meno con papà e mamma. Lì la gente ti guardava negli occhi e ti dava subito del tu. Quando avevi bisogno di qualcosa ti capivano e, se potevano, ti aiutavano. Papà e mamma, poi, si erano fatti benvolere e tutti si prodigavano in gentilezze nei loro riguardi.   Ma torniamo all’attesa che, come tutte le attese, un bel giorno finì perché mio fratello ormai era lì lì per arrivare. Io non l’avevo ancora capito, e non lo capii neanche quando mi mandarono a dormire con Claudio, a casa di Ilvia e Mario. Mi ci mandarono perché da noi quella sera c’era uno strano via vai di gente e poiché il mio letto era in camera da pranzo, a due metri dall’ingresso, per me quella notte sarebbe stato impossibile riposare.  Ci coricammo uno da capo e uno da piedi perché allora, quando c’era gente da ospitare, spesso si usava così. Comunque tutti e due eravamo contenti dato che eravamo amici quindi, dopo aver letto qualche giornaletto e fatto qualche chiacchiera , ci addormentammo. Ad un tratto, però, la luce si accese e comparve Ilvia che disse: “Vieni a vedere tuo fratello, che è nato!”. Trovai la casa piena di gente, pareva che ci fosse tutto il palazzo, e papà che offriva da bere a quelli che si trovavano nella camera da pranzo. Io ero piuttosto frastornato e, quando mi portarono in camera da letto, feci un po’ di fatica a vedere mamma, tante erano le persone presenti. Poi, vicino a lei, vidi due manine che si agitavano e udii per la prima volte la sua voce che piangeva.  Mi avvicinarono al letto, lo vidi e lui mi vide, poi, quando mi avvicinai di più, sembrò quasi che volesse afferrarmi il naso con quelle manine microscopiche. Non lo presi in braccio perché era appena nato ed avevo paura di fargli male, anche solo toccandolo. Lo lasciai vicino a mamma che in silenzio ci osservava. Non ricordo molto altro di quella lunga notte d’inverno del ’59 in cui nacque mio fratello, non ricordo neanche se riuscii a riprendere il sonno quando mi riportarono a letto con Claudio. Forse no.  Per la scelta del nome non ci fu problema, sembrava che mio fratello si fosse chiamato sempre in quel modo, anche quando ancora non esisteva neanche nella mente di Dio.  Era un bel nome Marco, suonava bene anche perché ripeteva un po’ il cognome e per questo motivo tutti erano certi che avrebbe avuto uno splendido avvenire. Un giorno papà, guardandomi un attimo prima di andare a lavorare, mi chiese a Bruciapelo: ”Ma tu come lo chiameresti tuo fratello?”.  “Se fosse per me lo chiamerei Gek”, risposi tutto d’un fiato ricordando l’autore di un libro che stavo leggendo e che parlava di grandi spazi innevati e di cercatori d’oro. Marco, infatti, con quei suoi occhietti azzurri, poteva essere benissimo il tipo capace di compiere imprese del genere. Papà mi guardò ancora un secondo prima di chiudersi la porta alle spalle, poi disse: “Gek va bene”, ed usci per andare al suo lavoro. Da allora Marco fu anche Gek nella nostra famiglia, per lo meno in quegli anni iniziali.                     Marco, alias Gek   Tanta acqua è passata sotto i ponti da quella lunga notte d’inverno e per tanto tempo io e Marco, alias Gek, siamo stati buoni fratelli, anche se con vissuti completamente diversi a causa dalla differenza di età. Dieci anni non sono pochi. Siamo stati sempre assieme da allora, almeno fino alla sera in cui, a Roma, cenai in famiglia per l’ultima volta prima di partire per la Calabria, dove sarei andato a sposarmi. Mamma preparò una cena importante nella sala da pranzo dov’erano venuti anche altri amici Friulani per salutarmi e festeggiare.  Gek stava zitto e mangiava il suo brodo senza alzare la testa, ogni tanto mi guardava come aveva fatto la notte di tredici anni prima. Allora lui era arrivato ed ora ero io me ne andavo. Ancora una volta lo lasciai vicino a mamma che in silenzio ci osservava, mentre gli altri facevano festa.  Renzo Marcuz 4 febbraio 2012 Come eravamo, quel mattino del primo marzo 1959 al battesimo di Gek                          Il “gruppone” del battesimo di Marco   Le persone della foto, scattata vicino alla Chiesa di Roccasecca Scalo (notare com’era diverso lo sfondo) sono, iniziando da sinistra:  Sull’ultima fila, Zio Riccardo Bressa da Cimolais (UD- All’epoca la provincia di Pordenone ancora non esisteva), probabilmente il Sig. Di Lenna, all’epoca Capo Deposito Locomotive di Cassino, mio padre Duilio, Mario Iacovella, Ripa Vincenzo, da Aquino, che battezzò Marco (gliù patine), un signore che non conosco e il Prof. Renzo Battistella da Montereale Cellina (UD). Sulla fila di mezzo, probabilmente la moglie del Sig. Di Lenna, Angela Rubeo, Zia Illa Bressa, la matrina, moglie di Ripa Vincenzo, di cui, ahimé, non ricordo il nome e che tiene in braccio Gek, Pina Bressa, mia madrina e figlia di Zio Riccardo e zia Illa.  Sulla filetta davanti, Giannino Ripa, figlio dei padrini, Claudio Iacovella ed io (notare com’erano pulite le nostre scarpe).   Angela Dedicato ad Angela Rubeo, che avrà aiutato chissà quante donne a diventare madri   Era poco tempo che Angela frequentava la nostra casa ma a tutti noi, ormai, sembrava di conoscerla da sempre. Era sua consuetudine infatti, dopo aver visitato mamma sempre puntuale e sorridente, fermarsi a parlare un po' con lei del più e del meno, poi andava via con la stessa discreta leggerezza con la quale era arrivata. Io pensavo che forse le faceva piacere intrattenersi con noi, che eravamo forestieri come un poco anche lei era, ma forse questo completare il suo lavoro con momenti più vicini al calore ed alla tenerezza domestici erano il tratto caratteristico e spontaneo di una sua innata dolcezza. Angela al battesimo di mio fratello Marco detto Gek
A me, bambino che aveva appena letto "Le avventure di Pinocchio", ricordava addirittura la fata dai capelli turchini, e pensavo che, alla fine, avrebbe fatto nascere mio fratello con un bel tocco di bacchetta magica che senz'altro doveva tenere nascosta da qualche parte. Non è che non conoscessi tutti gli aspetti "tecnici" di quanto stava per accadere, me li aveva spiegati papà mentre incideva le castagne una sera di novembre del 1958, quando era ormai evidente che presto sarebbe arrivato un fratellino. Messe ad arrostire sui cerchi arroventati della stufa a legna quelle castagne lucide e scure sarebbero diventate caldarroste, un po' più nere e bruciacchiate, ma ottime da mangiare calde con papà e mamma, nel calore della nostra casa e parlando di quanto stava per accadere.  Dicevo, per l'appunto, che pur credendo a tutti i “passaggi tecnici” che mi erano stati descritti, preferivo pensare che la nostra dolce amica avrebbe fatto comparire mio fratello con un suo incantesimo tutto particolare, e quanto accadde successivamente non fece che rafforzare in me questa mia idea un po' balzana. Un giorno, era ormai inverno pieno ed il tempo era bruttissimo, Angela arrivò a casa nostra tutta trafelata e un po' bagnata a causa dell' ombrello di cui si era rotto il manico. Sicché non riusciva a tenerlo bene. Papà, che era in casa, le disse: "Prenda quest'altro per tornare a casa, signorina, il suo ombrellino lo lasci pure qui che cercherò di aggiustarglielo io". Poi andò in cantina dove, tra un po' di carbone e la legna necessaria ad alimentare la stufa della cucina, a quei tempi unica fonte di riscaldamento, conservava i suoi attrezzi ed anche pezzi di legno di qualità scovati, di quando in quando, tra le traverse che ogni anno ci venivano assegnate.  Con questi legni, un po' più pregiati, faceva mobiletti e piccoli lavori per la nostra casa ed anche per qualche vicino e con un pezzettino che gli sembrava adatto, che mi sembra di ricordare fosse mogano, fece il manico dell'ombrellino di Angela. Era proprio bello quel manico, ne ricordo ancora la forma, assolutamente elegante e del tutto diversa da tutte quelle che si vedevano in giro, anche nei negozi di Cassino. Papà lo dipinse ben bene, come solo lui sapeva fare, lo lucidò, lo lasciò asciugare ed alla fine lo collegò perfettamente al resto dell'ombrellino che, di colpo, sembrò essere stato fatto da sempre in quel modo. Poi mi incaricò di andarglielo a consegnare lì dove all'epoca Angela abitava. Era la palazzina d'angolo tra Via Domenico Torriero e Via Piave, proprio quella con il nome del soldato morto in Bosnia scritto sopra una placchetta di marmo che ora è tutta scolorita… Quando Angela rivide il suo ombrellino col manico nuovo sgranò gli occhi e … "Ma è proprio scic!" esclamò d'un fiato, dandomi anche un bacio sulla fronte. Ecco, io una parolina così fine a Roccasecca non l'avevo mai sentita, e neanche altrove, e questo rafforzò in me il convincimento che Angela fosse davvero una bellissima, dolcissima fatina.   Renzo Marcuz 24 agosto 2013
Angela Rubeo, che guarda, con evidente soddisfazione, un “suo”  bambino (al secolo Ferdinando Vicini, nato nel 1958 in una casa vicino  al passaggio a livello poco prima della “Stazione”, nonché esimio  giornalista e collaboratore dell’Eco di Roccasecca fin dal Numero 1!)