L’Eco di Roccasecca
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Anno 18, n. 89		                                           Dicembre 2013 Anno 18, n. 89		                                            Dicembre 2013
Il nostro ormai non più “nuovo “ collaboratore, Renzo Marcuz, ci offre un’altra splendida memoria della Roccasecca che fu … Nella mail che accompagna la sua ultima fatica, scrive, tra le altre cose: “ Sta tornando il Natale; è passato poco meno di un anno da quando abbiamo parlato per la prima volta dell'acqua della Sabbatina, ed il tempo sembra che sia volato. Ora sta tornando il Natale e vi mando questo racconto ispirato all'acqua, e non solo a quella della Sabbatina, così semplice eppure così importante. Che c'entra con il Natale? Niente, ma forse va bene ugualmente par fare due chiacchiere davanti al camino durante una serata d'inverno, magari mentre fuori sta piovendo! “ Un plauso sincero a questo “ragazzo” che è entrato in punta di piedi sul nostro giornale e sta conquistando tanti lettori che rileggono nelle sue pagine vividi ricordi di un tempo neanche tanto lontano, ma che sembra inesorabilmente antico.   L’acqua della Sabbatina  “Chi se beve l'acqua della Sabbatina  nen ze ne va chiù da Roccasecca”  Di solito ci si andava in bicicletta, di solito ci si andava in gruppi di tre o quattro persone, di solito le persone che ci andavano erano contente, di solito … era estate. Parlo di quel posto dove tutti andavano a “cogliere l’acqua”, e che non era, poi, così distante.  (Non so se l’espressione “cogliere l’acqua” sia roccaseccana o se sia ciociara, forse nessuna delle due. Mi sembra però giusta per esprimere un sentimento di gratitudine verso quell’acqua ristoratrice che si raccoglieva e che, a volte, si donava. Un po’ come un fiore che si può cogliere e donare).  Tutti? Sì certo, tutti quelli che non potevano avere “acqua buona” da bere direttamente dal rubinetto di casa propria ed anche tutti quelli che non avevano un pozzo in casa, o nelle vicinanze, com’era invece per le famiglie contadine. Non è che si pretendesse tutta l’acqua minerale che si consuma oggi. Bastava che fosse fresca e sapesse di buono, non mi sembra che chiedessimo molto. L’acqua diretta, si chiamava un tempo, per distinguerla quella che veniva accumulata nei cassoni sui terrazzi dei palazzi che quasi sempre erano di eternit. Quindi anche noi del Palazzone, che pur avendo l’acqua diretta non la consideravamo un granché e preferivamo non berla. Il pozzo, poi, ovviamente non l’avevamo, e quindi eravamo un po’ obbligati ad andare, ma non ci dispiaceva affatto, anzi! Per dirla proprio tutta, la disponibilità di un pozzo, anche se in comune, esisteva, e pure a portata di mano, bastava solo traversare la strada. Si trattava una cavità profonda e scura, tutta rivestita in pietra, scavata forse in tempi lontani da un anziano signore, il vecchio Pirro, che aveva una fabbrichetta di decori per l’edilizia per l’appunto sull’altro lato della strada, quasi di fronte al Palazzone. O forse l’avrà scavata qualcun altro prima ancora di lui, forse prima della guerra. Questo non lo so. In quella sua fabbrichetta Pirro produceva manufatti in gesso e cemento per l’abbellimento delle case e dei giardini: colonne, balaustre, tavoli artistici con i relativi sedili, statue e bassorilievi di soggetto religioso e diverso, poi vasi e fioriere di tutte le fogge e misure. All’interno dell’area dove esponeva la sua produzione, in fondo ad un vialetto di brecciolino fiancheggiato da aiuole, sulla sinistra, aveva anche allestito una cappellina open air con tanto di altare, banchi ed inginocchiatoi, tutto ovviamente in cemento bianco. Sull’altare, protetta da due colonnine slanciate e da una piccola cupola, una statuina della Madonna, bianca anche lei, veramente bella. Davanti a questa Madonnina ogni sera del mese di maggio, di ogni mese di maggio, si diceva il rosario ed a condurre la recita delle contemplazioni e delle litanie era quasi sempre la madre di Cleandrina, moglie del Direttore De Camillo, che a sua volta era proprietario della prima palazzina di Via Domenico Torriero, quella sulla destra.  (Lo so, avrei potuto dire anche moglie del Direttore ecc. ma non sarebbe stata la stessa cosa) A quel tempo Cleandrina faceva le elementari come me, solo che lei era un anno avanti. Nel primo mistero doloroso si contempla… così attaccava la mamma di Cleandrina, proseguendo poi con una voce tanto accorata che sembrava stesse assistendo per davvero alla passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Orto degli ulivi.   Santa Maria madre di Dio … così rispondeva, con devozione profonda, il gruppo delle pie donne nel silenzio della sera sgranando, con una mano, la corona del Rosario e cercando di tenere fermo, con l’altra, qualche figlio che si dimenava. Ma senza riuscirci. Infatti accadeva che, dopo ripetuti tentativi, i bambini riuscissero sempre a divincolarsi ed iniziassero ad andare scappando qua e là intorno alla cappellina, provocando le occhiate fulminanti della mamma di Cleandrina che a quel punto, forse per manifestare la propria disapprovazione, calcava la voce sui misteri e sulle litanie. Ma questo non li frenava e via su e giù, sempre di corsa, per il vialetto bianco fiancheggiato da aiuole dove il vecchio Pirro coltivava con passione un’infinità di fiori. C’era una quantità di rose bianche, gialle e rosse, di un rosso scuro che virava al blu, tutte profumatissime. Poi ancora dalie, garofani e bocche di leone, di tutti i colori e dimensioni. Era difficile, per i piccoli fuggitivi, resistere alla tentazione di cogliere uno di quei fiori meravigliosi per regalarlo alla propria mamma, forse anche per farsi perdonare, ed era per questo che alla fine del mese di maggio, di ogni mese di maggio, le aiuole e le siepi fiorite del vecchio Pirro avevano sempre un aspetto… molto vissuto. All’interno della sua fabbrichetta, ben riparato da una tettoia di cemento sostenuta da alte mura, l’anziano imprenditore possedeva quindi questo pozzo, talmente profondo che quando si faceva scendere il secchio, legato ad una fune sottile, sembrava non dovesse arrivare mai a toccare il fondo. L’imboccatura era protetta con un parapetto in pietra alto più di un metro e per guardare dentro noi bambini dovevamo un po’ arrampicarci, ma era meglio non farlo perché lo spettacolo che si apriva davanti ai nostri occhi era come un’enorme fauce, davvero terrificante. L’acqua del fondo rifletteva un poco la luce proveniente dall’alto, le pareti erano viscide e davano l’impressione che se un bambino vi fosse caduto dentro non sarebbe mai più riuscito a risalire. Sarebbe senz’altro morto, in quella cavità profonda e scura, e sarebbe morto affogato o di paura, o forse per entrambe le cause. Ma anche i grandi dovevano stare attenti, sia a calare il secchio, guardando ogni tanto quanto mancava perché toccasse il fondo, sia a ritirarlo in superficie, facendo attenzione a che non ondeggiasse troppo e si versasse l’acqua appena attinta.  Non mi piaceva il pozzo del vecchio Pirro, ed andavo sempre mal volentieri in quel posto con i miei genitori, anche se lui ci faceva la gentilezza di lasciarci prendere tutta l’acqua che desideravamo e che, volendo, si poteva anche bere sul posto, attaccandosi direttamente al secchio.  Alcuni lo facevano per dissetarsi subito e meglio, ma a me non piaceva bere così, e non per motivi d’igiene. Avevo la sensazione, infatti, che quell’acqua conservasse, oltre al sapore metallico del secchio di ferro, anche un sentimento di orrore derivante dalle profondità fredde e nere dalle quali era stata cavata. A volte avevo addirittura la sensazione che sapesse come di sangue, ma era certamente solo auto suggestione. Sempre grazie, comunque, al vecchio Pirro! Grazie di cuore per tutte le cortesie e gentilezze che quel signore distinto e gentile fece a tutti, quindi anche a me, ed in modo completamente disinteressato. Detto questo debbo però subito aggiungere, anche a costo di apparire un ingrato, che io preferivo, e veramente di molto, andare a cogliere l’acqua in quel luogo accennato all’inizio, e che si chiamava … “la Sabbatina”! Come ho già detto non era così distante quel posto frequentato d’estate da allegre brigate in bici, e non lo era neanche quando il tempo per arrivarci, per così dire … si allungava.  Sembra strano che un’astrazione così alta come il tempo, che dovrebbe essere assolutamente indifferente alle vicende umane, possa allungarsi o accorciarsi a seconda delle circostanze. Ma questo è quello che realmente si percepiva quando, ad esempio, il passaggio a livello, che subito si incontrava dopo aver fiancheggiato la staccionata di cemento della ferrovia, lo si trovava chiuso, con le sbarre abbassate. Nessuno, comunque, si permetteva di passare sotto se il treno tardava, anche perché, a quei tempi, non c’era tutta la fretta che oggi ci consuma e il tempo, bene o male, bastava sempre. Quelle sbarre abbassate davano inoltre l’opportunità ai ciclisti, di scambiare più tranquillamente qualche parola tra loro, con chi già era in attesa e con chi sopravveniva, magari a piedi, ed anche con qualcun altro delle famiglie che abitavano lì vicino. Ricordo come papà spesso e volentieri si fermasse a parlare con un signore, un po’ più anziano di lui, che abitava nell’ultima casa a destra uscendo dallo Scalo, proprio accanto al passaggio a livello e che a volte ci faceva entrare. Sono rimaste impresse nella mia memoria immagini di sacchi di granaglie ammucchiati in una stanza, o in un corridoio, e di papà che parlava con quell’uomo forse trattando l’acquisto di qualche animale: una gallina, un coniglio, o di uova o d’altro. Mi sembra di ricordarlo, quel signore, come un uomo di statura alquanto imponente, con indosso una maglia di lana, che pareva portasse sia d’estate che d’inverno, come molti a quei tempi. Mi sembra di ricordare, anche, che avesse ‘na bella panza (L’espressione è romanesca, non ciociara e non vuole essere spregiativa. “Omo de panza omo de sostanza”, si usava dire a Roma un tempo), e che la sostenesse con la cintura di cuoio dei pantaloni, che ci passava sotto. Il particolare curioso, che vidi solo a Roccasecca, era che questa cintura di cuoio fosse legata dietro alla schiena, anziché davanti come normalmente accade con le cinture che tengono su i pantaloni, e mi sembrava una cosa strana, anche se forse per questa persona era più comodo così. E’ chiaro che non sono affatto certo che fosse proprio quell’amico di mio padre a tenere la cintura in quel modo, e la cosa non mi sembra neanche di particolare importanza, ma è certo che molti, a quei tempi, si reggevano la panza in quel modo, e più si andava verso la Sabbatina, ed anche oltre, più ce n’erano. Dopo che il treno era passato, le sbarre si sollevavano lentamente; si poteva riprendere la corsa in bici e non ci voleva molto per arrivare. Superata infatti la casa dove abitava la nonna di Nino, sulla sinistra e che a quei tempi era ancora da completare, la Sabbatina era a destra, proprio in corrispondenza di una curva. Bisognava però saperlo che quello era il posto perché non è che ci fossero segnali, targhe o particolari riferimenti. Per lo meno a quei tempi. L’unico indizio, allora, poteva essere la presenza di biciclette poggiate agli alberi, proprio all’inizio di un sentiero quasi invisibile che si dipartiva dalla strada, non altro. E questo se in quel momento, e per caso, qualcuno era andato a prendere l’acqua in bici, altrimenti nulla, bisognava solo saperlo. Non c’erano fiori lungo la strada polverosa che portava alla Sabbatina e tutto era così diverso dall’accurata leggiadria del vialetto che portava alla cappellina di Pirro. Solo a primavera i cigli incolti si coprivano di fiorellini color indaco che somigliavano a tante piccole stelle (Borragine, è il nome dei piccoli fiori a forma di stella, ma l’ho scoperto solo dopo). Quando io e Nino andavamo a trovare sua nonna Angela ci fermavamo sempre a cogliere quei piccoli fiori, e li succhiavamo, quasi fossimo degli insetti, perché avevano un sapore vagamente dolce. Poi arrivavamo dalla nonna, che ricordo nella penombra di una cucina con una madia da un lato, da dove l’anziana signora tirava fuori, regolarmente, una pagnotta di pane. Poi ne tagliava una fetta per ciascuno, poggiandosi la pagnotta al petto e tagliando il pane con un coltello lungo ed affilato. Era un gesto che poteva sembrare pericoloso ma non lo era affatto perché compiuto con grave e serena lentezza. Come un rito. Un po’ d’olio su quelle fette così irregolari, eppure così perfette, e potevamo fare merenda o colazione, a seconda dell’orario. Poi uscivamo sulla strada e via di corsa, alla Sabbatina, a dissetarci. Per arrivare alla sorgente si percorreva quindi quel sentierino nascosto cui ho accennato dianzi e che era completamente circondato dagli alberi. A destra e sinistra, sopra e sotto, avanti e indietro tutto era verde e silenzio, con la luce del sole che filtrava tra le chiome giungendo raramente fino a terra. Percorrendo quelle poche decine di metri in discesa si apprezzavano tutte le tonalità del verde, del giallo, del grigio e, in autunno, quando le foglie arrossiscono, anche del cinabro.  E poi, ma raramente, dell’indaco di qualche piccolo fiore selvatico, a terra. Tutto dipendeva quindi dalla stagione ed anche … dalla buona creanza di chi era passato prima. Quando quel sentierino sassoso terminava, bisognava scendere ancora, alcuni gradini di una scaletta di cemento che finiva in di una piazzola, anch’essa di cemento, circondata da un parapetto, proprio sotto ad una enorme rupe incombente, sovrastata dagli alberi. Quella era la Sabbatina.  Sotto quella rupe due cannelle di acciaio davano un’acqua così fresca e leggera e che chiunque poteva cogliere ”ad abundantiam”, magari non perdendo mai d’occhio quella rupe incombente che sembrava fosse sul punto di cedere. E se ciò fosse accaduto? Allora … arrivederci e grazie, ma si cercava di non pensarci. Mentre i grandi coglievano l’acqua nei boccioni di spesso vetro verde o nei fiaschi di vetro impagliato, i bambini si sporgevano sul parapetto cercando con lo sguardo il colore dell’acqua della Melfa, il vecchio fiume che scorreva più in basso, e tendevano l’orecchio per ascoltarne il respiro, ma inutilmente. D’estate l’acqua tanto amata non scorreva mai nel vecchio alveo della Melfa che restava silente, come un’anziana donna dal seno ormai asciutto che con occhio vitreo guarda lontano, ricordando il passato. Rimaneva solo il gracidare delle rane che si contendevano le poche pozze di acqua scura, ultima traccia delle piene d’inverno, a sovrapporsi all’esile canto dell’acqua che zampillava fresca e chiara dalle cannelle d’acciaio conficcate ai piedi dell’enorme rupe. Alla fine, al calar della sera, nessuno percorreva più il sentierino sassoso nascosto tra il verde degli alberi, e dopo che l’ultimo bambino se ne era andato, forse guardandosi indietro un po’ timoroso, la Sabbatina rimaneva sola, tutta sola nel silenzio notturno. E allora, come una giovane sinuosa incantatrice ninfa che cantando in modo sottile e misterioso si cela comparendo e scomparendo tra gli alberi ormai prigionieri delle tenebre, così, nel buio della notte, la Sabbatina continuava il suo esile canto ammaliatore:  “Chi se beve l'acqua della Sabbatina nen ze ne va chiù da Roccasecca, nen ze ne va chiù, chiù!”  E’ capitato anche a me.  Renzo Marcuz 3 ottobre 2013
Il tempietto dedicato alla Madonna di Lourdes (anni 60)…
Le piccole stelle color indaco
Tommaso Pirro
Il tempietto nello stato attuale
Il laboratorio allo stato attuale. (foto R. Tanzilli)
Maria Pia Pirro
nonna Angela