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L’Eco di Roccasecca
Quante volte avrò sognato di tornare a Roccasecca, al Palazzone, a…casa mia,? Non è facile, per me, rispondere a questa domanda, posso solo dire molte, moltissime volte. Quello che mi è facile, invece, è definire il tempo trascorso da quando l’ho lasciato, quel vecchio palazzo dei ferrovieri di Roccasecca Scalo.  Un tempo che dall’alto della sua inesorabile indifferenza diventa sempre più lungo. Facevo la terza media quando me ne andai, anzi, per l’esattezza, l’avevo appena iniziata e l’avevo iniziata a Cassino, in una scuola che venendo dalla stazione ferroviaria era subito dopo Piazza Zeppieri (Così si chiamava quella piazza dove c’era, a quel tempo, la sede delle autolinee Zeppieri. Non so se oggi si chiami ancora in quel modo), in un complesso  che comprendeva anche il liceo ginnasio ed il classico.  “Abate Gregorio Diamare” era il nome di quella scuola e a quel tempo sapevo solamente che era stato un Abate di Montecassino, uno dei tanti, pensavo. Non sapevo, allora, che Gregorio Diamare era stato l’Abate della guerra, l’uomo che nel febbraio del quarantaquattro aveva assistito alla distruzione della sua abbazia da parte degli Angloamericani e che poi era stato riaccompagnato a Roma dai Tedeschi. L’uomo che anche sotto le prime ondate dei bombardamenti era voluto rimanere al suo posto, tra la sua gente, e che forse sarebbe voluto morire lì.  Ma non è di questo che voglio parlare, fiumi di inchiostro sono stati già versati su quella tragedia.  L’ho voluto citare molto brevemente, solo per aggiungere la mia testimonianza ad un nome che per me, allora, non rappresentava proprio nulla, ma forse neanche per colpa mia che ero solo un ragazzino delle medie. E forse non era colpa neanche di chi non me ne aveva mai parlato e che a quel tempo, probabilmente, voleva solo guardare avanti, dimenticando la guerra.  In quella scuola avevo comunque trascorso anni felici, ricchi di soddisfazioni sotto la guida di insegnanti capaci.  Ricordo la Professoressa Furia Anna Grazia (Quando sono andato a ricercare sue notizie, tra i vecchi compagni delle scuole medie di Cassino, ho scoperto che nella cerchia dei suoi amici era chiamata Graziella. E’ lei quella del titolo!), di lettere, il Professor Tomassi, di matematica e suo padre che era Professore di francese. Poi il Professor Dante D’Andrea di disegno, Don Antonio, Parroco della Chiesa di S.Antonio, che insegnava religione, e credo proprio di averli citati tutti. Tra di loro, tuttavia, chi mi è rimasto più nel cuore è proprio la Professoressa di lettere, Furia Anna Grazia per l’appunto. Non starò a dilungarmi con tutti i fatti e gli aneddoti che potrei raccontare su di lei, forse un giorno lo farò, ma voglio ricordare solo l’ultimo dono che mi fece e che ho conservato gelosamente per tutta la vita. Sono passati più di cinquanta anni!  Era un libro dalla copertina rossa, con un’immagine sovrimpressa raffigurante patrioti in lotta per l’unità d’Italia ed era pieno di racconti, proclami, aneddoti, testimonianze, poesie e canzoni del nostro Risorgimento. Era un libro che la Professoressa mi aveva donato, forse, affinché andandomene mi sentissi meno solo e forse per questo scopo lo arricchì con una dedica redatta con la penna stilografica che tanto amava e con quella sua grafia chiara, nitida, concisa. Severa e amorosa insieme. Augurandomi di “proseguire nella soddisfacente via dello studio e del pensiero” la cara Professoressa esprimeva anche la speranza di essere ricordata; e come avrei potuto fare altrimenti? Quel piccolo libro rosso, ormai antico e sempre conservato accanto a quelli che amava leggere mia madre, era ed è, per me, come una reliquia.  Esso reca la data del giorno in cui la Professoressa me lo consegnò, il 22 dicembre del 1961, l’ultimo prima delle vacanze di Natale, l’ultimo che la vidi.       Ecco perché posso definire con tanta precisione il tempo trascorso da quando dovetti abbandonare quella scuola, quel vecchio palazzo di ferrovieri, quegli amici. Ben più arduo, invece, è definire il tempo dell’arrivo, a Roccasecca Scalo ed al Palazzone. Ricordo solo che ero piccolo, ma proprio piccolo, non avrò avuto neanche cinque anni, e lo ricordo bene perché i miei genitori, evidentemente preoccupati che non oziassi troppo, pensarono bene di mandarmi subito all’asilo, in una casa lungo Via Piave, sulla destra andando verso il bivio. Il bivio era quello con la Via Casilina, allora universalmente noto come “Gliù bbivie”, in roccaseccano. Fu una fugace esperienza di cui mi sono rimaste impresse soprattutto due cose. La prima, che non è poi una cosa, è una figura femminile, una Maestra, anzi una Maestra giardiniera come allora si chiamavano le insegnanti dell’asilo, quelle cui venivano affidati i bambini che non si potevano ancora iscrivere alle elementari. ( La definizione ha una sua congruenza se si tiene conto del fatto che gli asili si chiamavano “giardini d’infanzia”, anche se non sono affatto sicuro che negli anni cinquanta si usasse già definirli in quel modo ). Era una donna snella, molto snella e sufficientemente alta, con capelli corvini ed occhi nerissimi. Ed aveva un fare energico, molto energico.  Oltre a queste sue qualità fisiche, peraltro abbastanza comuni nelle giovani donne di allora, ne aveva un’altra, per così dire artistica.  Nei suoi modi quella Maestra ricordava, infatti, un’attrice ben nota a quei tempi anche se per aver svolto ruoli non esattamente da primadonna, ma non per questo meno importanti. Nell’aspetto era infatti graziosa, ma di una grazia riservata, non esplosiva come quella delle cosiddette primedonne.  Avrebbe potuto svolgere, insomma, uno di quei ruoli per i quali un attore, ma anche un’attrice, sono sempre stati definiti, forse un po’ troppo sinteticamente e frettolosamente, come…  caratteristi.  La caratterista cui mi riferisco era Tina Pica, indimenticata spalla  che mai sfigurò accanto ad attoroni quali Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, contribuendo largamente al successo dei film cui partecipava. Chi non la ricorda, infatti in “Pane amore e fantasia” e “Pane amore e gelosia”, tanto per citarne un paio dell’indimenticabile serie del maresciallo e della bersagliera? E allora? Questa Maestra? Sono certo che a questo punto l’avrete già indovinata. No?  E va bene, lo dico io: la Maestra era Peppinella, non ne ricordo il cognome (di fatto ho poi saputo, grazie ad un’accurata operazione di intelligence - la mamma di Gianfranco - che il suo nome completo era Giuseppa Vicini ma tutti la chiamavano Peppinella, mentre lei amava farsi chiamare Pinella ) ma non importa, a quanti la conobbero sarà tornata certamente davanti agli occhi.  Era infatti proprio Peppinella la giovane donna che, in quella casa lungo via Piave, con piglio energico e l’eterna sigaretta in bocca prendeva in consegna tutti i bambini che le venivano lasciati e li teneva a bada, quanti che fossero, fino al momento della loro restituzione ai legittimi proprietari (Ooops! Lo so che era meglio dire genitori, ma, per l’epoca,  proprietari mi suona meglio, chissà perché! ). E l’altra, di cosa? Questa è più difficile da indovinare. Neanche in questo caso, per la verità, si trattava propriamente di una cosa, ma in questo caso non era neanche una persona. Si trattava infatti di un animale, anzi il più utile che esista dato che  del suo corpo nen ze butta gnente, come recita,  più o meno universalmente, un atroce detto.  Ormai è facile indovinare: l’altra cosa era un maiale, anzi un maialino piccolo, nero e snello, che con la sua buffa coda a ricciolino girava attorno alla base di una grande quercia cui era attaccato per una zampa.  Proprio dietro a quella casa che fungeva da giardino d’infanzia lungo Via Piave, sulla destra ecc. ecc.  (L’asilo di Peppinella, per chi facesse fatica a ricollegare) Non ne avevo mai visti prima ed è quindi forse per questo che è rimasto così impresso nella mia mente. Noialtri bambini giocavamo vocianti ben distanti dalla grande quercia e dal suo inquilino che a volte si fermava a guardarci, ed allora anche noi ci fermavamo a guardare lui, rimanendo tutti in silenzio.  In quegli istanti era come se quel pezzo di terreno piatto e vuoto che ci separava dall’albero grande e rugoso fosse una terra di nessuno, di quelle che separano le genti lungo i confini degli Stati. Una terra che nessuno osava traversare perché così era scritto da chi così aveva stabilito e poco importava se quelle genti silenziose avrebbero voluto guardarsi un po’ più da vicino e magari stare anche un po’ assieme, come, forse inconsapevolmente, volevamo noi bambini e il maialino.   Ecco, i primi ricordi che ho di Roccasecca sono proprio questi, la Maestra Peppinella e quel magro ma simpatico maialino che, girando attorno alla grande quercia, nella campagna dietro alla casa che chiamavano asilo, e grugnendo piano, cercava pazientemente qualche ghianda, fermandosi ogni tanto a guardarci.  Basterà questo a definire il tempo dell’arrivo?   Non lo so, non credo, ma non è poi così importante!  (Parlo, ovviamente, della definizione del tempo dell’arrivo. Peppinella, invece, era importante, eccome se lo era! ) Importante è invece ricordare una delle prime persone che avemmo la fortuna di incontrare, io ed i miei genitori, appena arrivati a Roccasecca in una giornata che ricordo piovosa, forse verso la fine di quell’autunno non meglio precisato all’inizio dei mitici anni cinquanta. Eravamo quindi appena approdati al Palazzone e l’appartamento che ci era stato assegnato era nudo e spoglio; i pochi mobili che papà aveva caricato sul carro merci, a Roma, forse erano ancora per strada, o forse erano arrivati anche loro e bisognava ancora scaricarli, ma non sarebbe cambiato molto. Era davvero poca roba!  Ricordo che papà, scherzando, raccontava sempre che quando aveva indicato il peso delle masserizie, sull’etichetta di accompagno aveva scritto “Quaranta chilogrammi, compresa la moglièra”. C’era quindi poco da stare allegri, ma a quei tempi, pochi anni dopo la fine della guerra, era così più o meno per tutti. Ci sentivamo quindi piuttosto intimiditi in quell’umida giornata d’autunno che stavamo passando in un appartamento freddo ed estraneo, dove i passi risuonavano, che ora dovevamo chiamare casa nostra. L’unico elemento di arredo era la cucina economica, che funzionava a legna e che allora era una dotazione indissolubilmente legata alla casa. Un po’ come oggi accade per i termosifoni che però non servono a preparare il cibo, ma solo a scaldare. Allora la cucina, detta anche stufa, serviva a questo e a quello. Nell’attesa di iniziare la loro avventura ciociara rimboccandosi le maniche e guardando avanti con fiducia, come poi fecero per tutta la loro vita, certamente papà e mamma avranno pensato e detto chissà quante cose. Poggiata a terra una valigia di legno marrone col manico di ferro nero, che poi conservammo a lungo in cantina, forse avranno anche discusso sulla  scelta di venire ad abitare in Ciociaria, un luogo che li allontanava ancora di più dalla loro terra di origine, il Friuli, che da Roma era già così distante. Ma qui, finalmente, avevano una casa tutta per loro e quindi era inutile rimpiangere o recriminare. A Roma, durante i primi anni del loro matrimonio, subito dopo la guerra, avevano dovuto vivere in coabitazione con un’altra famiglia, come accadeva a molti Italiani. Intanto si era fatta una certa ora (Sempre a Roma, oggi, i ragazzi usano espressioni di questo tipo: “Aho, che volemo fa’? S’è fatta ‘na certa!” ), occorreva anche pranzare e ricordo che uscimmo tutti e tre cercando un posto dove comperare qualcosa, in quel paesino così sconosciuto e all’apparenza così freddo.  Non ricordo come siano andate esattamente le cose, posso solo tentare: “Ma che, dovete magnà?” ci avrà chiesto qualcuno cui papà si sarà rivolto per informazioni, “Jate da Peppandogne, no? Se magna bene e se spenne poche” avrà anche aggiunto lo stesso ipotetico qualcuno magari continuando a camminare spedito verso la stazione. E così facemmo. (Chiedo perdono a tutti per il mio tentativo di imitare il roccaseccano dell’epoca!) Ancora una volta non posso dire di avere ricordi precisi della vecchia osteria dove Peppantonio operava e, a meno di non inventare, non potrei quindi addentrarmi in descrizioni dettagliate, ma a che pro? Ricordo invece, e con precisione, le sensazioni che provai, e che forse provarono anche i miei genitori, entrando in quel luogo sconosciuto e così diverso da tutti quelli visti fino ad allora. Premesso che come tutti sanno, ma questo lo dico solo per i non Roccaseccani, quell’osteria si trovava lungo via Piave, questa volta sulla sinistra andando verso il bivio, ricordo di essere rimasto colpito, entrando, dalla sensazione di essere penetrato… nel regno dell’olio. Sembrava che tutto fosse  conservato sott’olio: salsicce, tonno, pomodori, peperoni, melanzane, sarde, alici, aringhe e sardine, tutto insomma sembrava essere stato preparato per essere messo sott’olio.  Pronto per il confezionamento di piatti freddi o di incredibili, formidabili panini. Questo guardando più o meno alla mia altezza, cioè a metà bancone o poco più in su. Se avessi alzato ancora lo sguardo, poi, la sensazione è che ci sia stato come un nugolo di prodotti commestibili pendenti dal soffitto. Salumi, prosciutti, provole e insaccati vari, e poi collane di peperoni e di peperoncino rosso, trecce d’aglio e forse, ogni tanto, anche lunghe e appiccicose carte moschicide srotolate e costellate di quei fastidiosi insetti che tanto tormento danno e hanno sempre dato alla gente.   Specie quando il tempo sta per cambiare. Non rammento la presenza di altri avventori, né di donne o cameriere pronte a servire ai tavoli in quel momento, e neanche dopo. L’unica figura che ricordo, e che non dimenticherò mai, è quella di un uomo dalla carnagione scura e dai capelli nerissimi, dalle sopracciglia spesse e dalla voce bassa, forse un po’ roca. Ricordo anche che, nonostante la giornata non propriamente estiva, indossasse semplicemente una canottiera di lana pesante, e mi pare non altro, su di un torace da lottatore. Forse poteva anche sembrare un energumeno ma non lo era ed il suo sguardo, certamente abituato a fronteggiare ogni situazione, svelava un’indole buona, come ripetutamente dimostrò nel corso della sua esistenza. Di chi sto parlando? Ma di Peppantonio è chiaro, a quei tempi il genius loci di quel luogo, è chiarissimo,  ma forse, in qualche misura, anche di tutta Roccasecca Scalo!“Che vvulite signurì?” avrà chiesto quell’omone ai miei genitori probabilmente intimiditi, e… “Ce penz’ì!” avrà certamente aggiunto di fronte alla loro titubanza scomparendo poi rapidamente in cucina. ( “I signori desiderano? Lasciate fare  a me” … per chi avesse bisogno di traduzione! ) Non so per quanto tempo rimanemmo soli, in silenzio o parlando piano, nella penombra di quell’osteria, so solo che ad un tratto, e come per incanto, eccolo ricomparire, Peppantonio, con enormi piatti di pastasciutta fumante che portò al nostro tavolo. Ancora una volta non posso dire esattamente di che tipo di pasta si trattasse, se fossero tagliatelle, bucatini o zite, pasta lunga o pasta corta, rigata o liscia, ma anche stavolta credo che non sia poi così importante! Ricordo benissimo, invece, che erano piatti enormi e che la pasta, già condita con un sugo così rosso e così denso come prima non avevo visto mai, aveva, sopra, ancora dell’altro sugo e sopra ancora una montagna di formaggio da cui usciva un tenue filo che sembrava fumo che era, invece, il calore e il profumo che quei piatti incredibili emanavano. Ricordo quella pastasciutta come una delle migliori pietanze mai gustate in vita mia, se non la migliore in assoluto, e come il sapore e il calore di quel cibo avessero di colpo saziato e scaldato non solo il nostro corpo, ma anche il nostro spirito.  Solo Dio sa di quanto ne avessimo bisogno in quella piovosa giornata di fine autunno, ma forse lo sapeva anche Peppantonio, che certamente aveva un po’ capito.   Renzo Marcuz 17  ottobre 2013
Anno 19, n. 90                                            Aprile 2014
Graziella, Peppinella e... Peppantonio Figure che nutrirono il mio spirito …  e non solo!
La copertina rossa
La sua dedica
Eccomi, all’epoca dell’asilo. Quello di Roma, però. Poco prima che ci trasferissimo a Roccasecca
Si, è proprio lei, la mia Maestra d’asilo
Peppantonio
L’asilo di Peppinella
La cara Professoressa Furia, che i suoi amici chiamavano Graziella