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L’Eco di Roccasecca
La più importante di queste macchine, che spiccava su tutte le altre, era quasi sempre una giostra, di quelle con i seggiolini metallici collegati ad una grande ruota colorata mediante catenelle lunghe e lucide per il continuo uso. Quattro per ogni seggiolino. Dopo essersi accomodati su quei minuscoli sedili, magari aiutati da qualche grande dato che erano sempre abbastanza distanti da terra, i ragazzini venivano bloccati con moschettoni di sicurezza dall'addetto alla giostra, che era anche lui un ragazzino, anche se di qualche anno più grande e dall'aspetto certamente più vissuto. Ne ricordo uno, in particolare, che aveva capelli di color fulvo, lunghi e irsuti che sembravano di stoppa, e colorito olivastro, di quelli che avevano, ed hanno, solo quelli costretti a vivere sempre all' aperto, assoggettandosi a tutti i patimenti di una vita randagia. I suoi vestiti erano poco più che stracci; mi sembra di ricordare che aveva una maglietta tutta scolorita e rattoppata che doveva essere stata blu e che ora era stinta, violacea, come diventano quelle dei vecchi marinai per colpa della salsedine. Dopo che tutti i ragazzi erano stati fissati ai loro seggiolini, allora i più grandi si attaccavano a quelli dei più piccolini, davanti a loro, tenendosi con le mani alle catenelle posteriori e puntando i piedi contro. Poi, quando la velocità della grande ruota colorata era giunta al massimo e la giostra ruotava con le catenelle oblique e tese al punto che sembrava dovessero rompersi da un momento all'altro, allora i grandi scalciavano in alto i seggiolini dei più piccoli, appena mollati dalle loro mani. È per questo che quella giostra lì era, ed è, universalmente conosciuta come calcinculo  anche se, forse a Roccasecca, a quei tempi, il nome era diverso. Ma non ne ricordo un altro. Era un gioco pericoloso che comunque divertiva tutti, grandi e piccoli; tutti tranne il ragazzo dai capelli irsuti che in basso ci guardava torvo, senza parlare. Durante questi  lanci  chi schizzava verso l'alto poteva tentare di afferrare un pallone di plastica, appeso ancora più in alto, ma non c'era verso di riuscirci.	   Alla fine della serata, o della Festa non ricordo bene, anche per far vedere che era possibile, l'ultimo lancio lo faceva il ragazzo dallo sguardo torvo che, con un altro del suo giro, prendeva sempre il pallone al primo colpo, guardandoci poi tutti con disprezzo.                                A me non è mai sembrato che quella giostra fosse una macchina,  poi, così pericolosa neanche quando la Domenica del Corriere se ne uscì con una tavola catastrofica, anzi addirittura terrorizzante,  credo di Beltrame, dove si vedeva un elefante impazzito, con gli occhi fuori dalle orbite, che rovesciava a capocciate una di queste giostre, provocando morti e feriti.  Dopo la prima impressione, però, mi rimisi subito abbastanza tranquillo anche perché il fattaccio era accaduto lontano da Roccasecca dove, tutto sommato, era piuttosto difficile che arrivassero degli elefanti impazziti.  Un'altra macchina che riscuoteva un discreto successo, specialmente tra i1 pubblico degli adulti, era costituita da una specie di siluro metallico. Metallo pieno, s'intende, e grande, più o meno, come una bottiglia di birra. Questo siluretto, che scorreva su di una monorotaia in miniatura, aveva, nella parte posteriore, una maniglia orizzontale per poterlo prendere bene e lanciare senza farsi male. Sul davanti, invece, c'era piccolo alloggiamento, una specie di nicchietta, dove veniva sistemata una cartuccia che esplodeva urtando contro un ostacolo. Un po' come le castagnole che a Natale noi ragazzi tiravamo per puro divertimento contro i muri del Palazzone che poi, però, rimanevano imbrattati dall'alone dello scoppio chissà per quanto tempo. L'ostacolo si trovava alla fine di quella monorotaia in miniatura, dopo un paio di rotazioni tipo montagne russe, ed al termine di un ultimo tratto in salita. L'abilità consisteva nel far scoppiare la cartuccia dopo che quella specie di siluretto aveva compiuto tutto il percorso e conservava quel minimo di energia necessaria alla battuta contro il fermo finale. Quella iniziale, di energia, gli veniva data facendolo oscillare più volte, avanti e indietro e tenendolo per la sua maniglia, sul primo tratto della monorotaia assolutamente orizzontale. Avanti e indietro, avanti e indietro sempre più velocemente. Poi si lanciava seguendolo con lo sguardo e sperando che ce la facesse. Guardando i grandi provare e riprovare e dopo che qualcuno,  finalmente, era anche riuscito a provocare il botto  pensavo che il gioco si basasse sulla sola forza bruta di chi vi si cimentava, ma non era così. Occorrevano anche intelligenza, tenacia e tempismo, oltre ad un notevole allenamento. Doti che, probabilmente, il ragazzo della giostra possedeva, ma non ricordo di averlo mai visto provare. A farlo erano quasi esclusivamente i grandi, magari qualche genitore, gli stessi co-munque che provavano anche il gioco della mazza (di questo non ricordo assolutamente il nome) e quello del Torero.  Nel gioco della mazza, chiamiamolo così, si usava un martellone vero e proprio, con il manico lungo e la massa metallica pesante, forse due e tre chilogrammi, del tipo di quelli che all'epoca ancora si usavano in ferrovia per allineare le rotaie sulle placche attaccate alle traversine di legno, e il gioco consisteva nel colpire il più forte possibile una specie di grosso bottone metallico, posto proprio alla base di quella macchina lì. Immediatamente si accendeva una fila di lampadine che saliva, progressivamente, sempre più in alto, fino all'ultima che era più grande e di colore diverso, rosso mi pare. Le rare volte che si accendeva anche quest'ultima, allora suonava una sirena e chi c'era riuscito era tutto contento. Di solito era un giovanotto che veniva dalle campagne o un omaccione irsuto tipo Zampanò, quello del film "La strada" di Fellini, o qualcuno ancora più forastico del vecchio Anthony Quinn.  Ma veniamo ora al “Torero” che ha avuto anche l'onore di un posto nel titolo, e non solamente perché il nome suonava bene. Quella del “Torero” era infatti una delle prime macchinette a concezione moderna che, nell'aspetto, poteva sembrare addirittura elettronica. Aveva infatti un quadrante di vetro pieno di scritte, quasi come quello della radio che, la sera, ascoltavo rannicchiato sulla sdraio del soggiorno, guardando l'occhio magico verde che si allargava e si stringeva e che, alla fine, riusciva sempre a farmi addormentare. Questo quadrante, però, era molto più grande e per illuminarsi occorreva mettere una moneta nell'apposita feritoia . Quanto ci si doveva mettere per farlo funzionare? Cento lire, cinquanta lire? Non ricordo. Ricordo solo che con cento lire ci si poteva comperare un chilo di ottimo pane, al forno del vecchio Salvitti lungo via Piave andando verso il bivio, e non mi pare che una mano di “Torero” potesse valere tanto, ma tutto può essere. Il congegno comunque era a tempo, nel senso che una volta ficcata  la moneta non è che avessi tutta la serata per fare il massimo risultato. Ti dovevi sbrigare perché dopo un poco, ma molto poco, quel quadrante che sembrava una grande radio si spegneva e, di moneta, dovevi metterne un'altra. Il massimo risultato si otteneva quando si accendeva la scritta “Torero” e ci si riusciva stringendo, l'una contro l'altra, due corna di toro che uscivano dalla parte bassa della macchinetta. Ecco spiegato perché si chiamava così. Chi non riusciva a raggiungere quel traguardo poteva incappare in scritte tipo mozzarella, signorina e simili beccandosi, ovviamente, la derisione degli astanti. Inutile dire che a vincere erano sempre, più o meno, gli stessi pseudozampanò che avevano fatto suonare la sirena con la grande mazza tipo ferrovie, ma tutto sommato non li invidiavo.  Non voglio spendere più di qualche parola su di un altro gioco, di tipo… muscolare che mi è tornato alla mente. Dico solo che si trattava di colpire, con un cazzotto , un pallone di cuoio, di forma ovoidale, appeso ad una catenella. Più forte colpivi più punti facevi, il tutto, come sempre, a pagamento. In questo caso, comunque, qualche calcolo si poteva anche tentare poiché i punteggi più alti si ottenevano provocando il migliore shoc di trazione  alla catenella. Il massimo sarebbe stato colpire quel pallone dall'alto verso il basso, ma c'era la tavoletta cui la cannella era appesa. Quindi niente. Inoltre, e senza fare tanti calcoli, quelli che vincevano sempre erano i soliti gorilla che ho detto prima e che avevano una castagna da paura. Quindi basta!
“Calcinculo”, “Torero” e… Dedicato agli artisti di strada  In quel periodo, parliamo come al solito della fine dei mitici anni cinquanta,  le diverse macchine che durante la Festa della Stazione davano il massimo svago a bambini e ragazzi, ma anche agli adulti, venivano posizionate in quell'angolo della piazza dov'era solito parcheggiare la sua corriera il vecchio Stefano. Quello era anche il posto dove i giovanotti riempivano gli arroventati ed interminabili pomeriggi estivi precedenti la Festa giocando a palla, anzi a passaggi, con un vecchio pallone di cuoio gonfio e teso come un tamburo. Era proprio tra 1a Stazione e il bar di fronte.
Anno 19, n. 92                                            Agosto 2014
con tanto di eroi e di eroina
di Renzo Marcuz
L'ultimo gioco che mi piace ricordare è quello  del tiro a segno (forse sarebbe meglio scrivere  tirassegno che suona meglio) e c'era sempre  qualche baracchetta attrezzata allo scopo, alla  Festa della Stazione di Roccasecca Scalo. Le armi in dotazione, pistole o fucili che  fossero, erano tutte ad aria compressa ed i  proiettili potevano, essere di due tipi: pallini di piombo o tappi di sughero . I bersagli erano i più diversi: pacchetti di  biscotti, pettinini e sciocchezze varie allineate  su ripiani diversa a diversa altezza, se si  sparava con i tappi di sughero. Palloncini colorati e pasticche di gesso grandi  come un'ostia consacrata e incollate a lunghe  file di ferretti metallici, se invece i proiettili  erano piombini. A me piaceva molto tirare in quelle  baracchette, anche per riportare a casa  qualcosa., magari un pacchettino di biscotti,  magari anche piccolo, ma l'arma che preferivo  era il fucile a piombini che si usava per sparare contro le pasticche di gesso. E perché questa preferenza? Ecco subito la  spiegazione. A quei tempi avevano appena proiettato, nel  vecchio cinema del Dopolavoro Ferroviario,  una pellicola con Gary Cooper, Burt Lancaster  e Sarita  Montiel, una splendida mora con degli occhi che sembravano due stelle. Era ambientata nel Messico dell'ottocento, il  titolo era "Vera Cruz" ed aveva colori  bellissimi, con rossi, gialli e blu che si  sprecavano.  Una scena mi aveva colpito in particolare, era  quella in cui i due gringos , capitati nel bel  mezzo di una festa da ballo messicana con  ufficiali austriaci in alta uniforme bianca e  dame elegantissime, riuscivano a spegnere  tutte le fiaccole del palazzo sparando da  lontano. Ecco, tirando con il fucile a piombini contro le  pasticchette di gesso, mi sembrava proprio di  essere uno di quei due formidabili gringos.  Peccato che non ci fosse quella ragazzina che  aveva occhi scintillanti come Sarita a  guardarmi.  Peccato davvero!  Testo e disegni di Renzo Marcuz 31 agosto 2013