L’odore di Napoli  A Pino
Renzo Marcuz
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Anno 19, n. 95		                                           Marzo 2015 L’Eco di Roccasecca Pochi giorni fa, quando Pino Daniele è morto, la prima cosa che ho pensato è stata ”Ho perso un’occasione!” “Come un’occasione? – mi si chiederà – Quale occasione? Quella di andare ad a-scoltare il suo ultimo concerto? Ammucchiato su a Courmayeur la notte dell’ultimo dell’anno?”  No, i concerti negli stadi non mi interessano neanche se sono quelli di capodanno, neanche se a cantare è Pino Daniele. Preferisco le audizioni nel chiuso dei teatri e quindi mi sarebbe piaciuto ascoltarlo, vederlo e magari toccarlo al Sistina o all’Olimpico come è stato con Massimo Ranieri e come, molto tempo prima, fu con Fabrizio De Andrè. Così mi sarebbe piaciuto ma così non è stato.  “Embè? Chette credi che sei l’unico che nun l’ha mai visto né toccato de perzona? Ce potevi annà quann’era possibile, mò è tardi bello mio!” mi si osserverà.  E’ giusto, ma l’occasione  perduta che io intendo è  quella di non essere tornato a Napoli più spesso, di non esserci tornato quando Pino era ancora vivo  e c’era pur mancando anche lui, e non so da quanto tempo, dalla sua città, pur abitando altrove, a Roma, a Firenze o in qualsiasi altro altrove..  Mancava ma era vivo, c’era, esisteva e quindi Napoli poteva comunque ed ancora connotarsi con lui, con la sua musica, con la sua esistenza, magari giocata altrove. Qualcuno tempo fa ha detto che “Chi nasce e vive in un posto alla fine diventa quel posto, lui è quel posto e quel posto è lui” ed io ci credo, sento che è così. E’ per questo motivo che la perdita di Pino Daniele l’ho sentita, in un certo modo, come la perdita di Napoli, di una certa Napoli, di quella conosciuta da bambino e poi da ragazzo e poi giovane uomo e poi… e poi… e poi…  Finché lui non è morto.   Ma com’era questa città  così lontana eppure così vicina, così diversa da Roma che mi ha visto nascere e poi partire e poi tornare e poi vivere e poi… e poi… e poi…? Com’era questa città così alternativa eppure così irresistibilmente attrattiva? Parecchie battute sono state coniate per rispondere a questa domanda, alcune con l’intento di condensare l’intero suo universo in un’unica espressione e quand’ero pic-colo, ed abitavo al Palazzone, la più infelice che circolava era “Vedi Napoli e poi muòri…”…  risparmio  il resto che mi è sempre sembrato impietoso e volgare. Quello che mi piace ricordare, invece, fu quanto scrisse  Pino Daniele a diciotto anni e che non può essere certo condensato in una battuta o in una semplice espressione ma raccolto in una lirica si. Una lirica che alla fine è diventata  il  soundtrack , la colonna sonora, delle infauste giornate che hanno seguito la sua scomparsa, una lirica che s’intitola“Napule è”, ma forse non occorreva neanche dirlo. E’, questa canzone, una specie di caleidoscopio  che, ruotato piano piano, mostra e trasmette una serie di immagini straordinarie nella loro struggente bellezza, ed assieme alle immagini mostra e trasmette suoni e vibrazioni ed anche la sensazione di un alito di vento che all’improvviso ti coglie ed accarezza, e carezzandoti ti avvolge con il profumo del mare.	  Quella che mi ha più toccato infatti, quella che Pino Daniele ripete e ripete e con la quale alla fine ci lascia è l’espressione “Napule è addore e mare” . Ma la sensazione che ascoltandola provo è che il soffio, il profumo, l’odore a volte aspro del mare che lui canta non siano quelli di cui si può godere passeggiando per Via Caracciolo o affacciandosi alla balconata di Posillipo, e neanche lo scenario grandioso della baia di Napoli che si gode dall’alto dei Camaldoli.  No, e non è neanche il mare che ti aspetta al molo Beverello, sciabordante per portarti altrove e forse per sempre. No, neanche quello.  “Ma allora qual è ‘st’addore chessenti? Ce lo fai capì?”mi si incalzerà.  Ecco, l’odore a volte aspro del mare che lui canta è, per me, quello che all’improvviso manca quando l’aria cessa di spirare  nei mille vicoli dei quartieri della città povera e disperata ed allora altro non resta che una sottile striscia di cielo azzurro, lassù in alto tra i palazzi scuri, per continuare a sperare. 	  A me capitò di girare per quei vicoli già quand’ero piccolo e andavo con papà e mamma a comperare qualcosa per arredare la casa in cui abitavamo, nel Palazzone di Roccasecca Scalo. Ricordo, in particolare, di quando partimmo per comprare un lampadario e ci recammo in un quartiere a ridosso della stazione centrale, appena traversata la piazza dedicata all’eroe dei due mondi.   Ogni genere di mercanzia traboccava dai negozi, musica a tutta forza si rovesciava dagli altoparlanti per i vicoli e veniva voglia di comperare tutto,  ma bisognava contentarsi stando anche attenti, che il rischio di beccarsi un pacco esisteva già allora. Papà trattava sul prezzo mentre chellallà andava dicendo che voleva lasciare qualcuno ed alla fine concludeva e si tornava sulla grande piazza dove s’incontravano i chioschetti dei venditori di acqua, i cosiddetti acquaiuòli, che vendevano acqua e bicarbonato con una strizzata di limone, ed anche quelli dove si vendeva polipo lesso. “O’ purpete” mi pare si chiamasse. Papà e mamma resistevano alla tentazione di comperare qualcosa in quei chioschetti “Non è igienico!” dicevano con il loro accento friulano,  ma non a quella di comperare una cartata di cozze nere e lucide poco prima di ripartire per tornare a Roccasecca. Poi, sul treno, papà le apriva con un coltellino milleusi che aveva sempre con sé e alla fine tutti ne mangiavamo dopo averle affogate con il succo di un limone mentre il vecchio treno iniziava a muoversi.  “Mmmmh che profumo! Che sapore!”  Ecco quelli, per me, erano il profumo e il sapore di Napoli, il profumo e il sapore  a volte aspro di quel suo mare che quel giorno non avevamo fatto neanche in tempo a vedere. Quello, per me, era l’addore e’ mare che Pino ha cantato.  Renzo Marcuz 18 gennaio 2015
Nei mille vicoli dei quartieri.