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L’Eco di Roccasecca
La Duchesca
Anno 20, n. 96                                            Maggio 2015
Introduzione alla lettura  La prima cosa che voglio affermare è che il pezzo titolato “La Duchesca” non era un racconto e non voleva essere neanche un saggio, una parodia o un travestimento. Non poteva essere definito nemmeno un pastiche o un qualsiasi altro prodotto letterario associabile alle pratiche della cosiddetta riscrittura, materia complessa, a me ignota, e svelatami per la prima volta durante una conferenza della Professoressa Rosalma Salina Borello cui ho avuto la fortuna di assistere, recentemente, al Teatro Piccolissimo di Ciampino. No, nulla di tutto questo.  “La Duchesca” era un semplice chiosare attorno al nome di un quartiere citato nel saluto a Pino Daniele quando parlavo di Napoli e del suo odore, o meglio dell’odore del suo mare.  “Embè, ma quanto deve durà sta cosa de Napoli, der mare, dell’odore c’hai sentito?”mi si chiederà a questo punto giustamente preoccupati.	               “La Duchesca, più che un luogo, è una condi- zione mentale e solo chi ha la forza di cercare può affrontare la marea di proposte che sgorga dai  meandri di questo mercato vivente” (dal web)    Niente, era ed è tutto finito e “La Duchesca”, citata in quel contesto, poteva rimanersene tranquilla nel suo cassetto se non fosse stato per la notizia, ormai datata di qualche giorno, che al prossimo festival di Cannes parteciperà anche “Il Racconto dei Racconti”, di  Matteo Garrone ispirato a “Lu cunto de li cunti” detto anche “Il Pentamerone” di Giambattista Basile di cui abbiamo parlato nel numero 95 dell’Eco.                         Per la verità un accenno al buon Giambattista ed alla sua opera era già stato fatto nel numero 94 parlando dei mazzamauregli ma non mi sarei mai aspettato che sarebbe balzato così puntualmente e prepotentemente agli onori della cronaca. Quasi che l’Eco l’abbia in qualche modo evocato…  Ma allora col tema del cinema forse ci azzecca, e a questo punto, prima di andare a vedere il film o anche dopo, leggiamoci pure le quattro chiose che ho scritto e poi vediamo se  e quanto ci azzeccavano.   Renzo Marcuz 9 maggio 2015
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Peppe Barra in concerto a Veroli (2001) mentre racconta una fiaba di Giambattista Basile (foto G. Molle)
Digressioni attorno a un nome  "Carneade... chi fu costui?" forse qualcuno ricorderà l'espressione manzoniana che frullava per il capo a don Abbondio la notte durante la quale, in grazia di Dio e in attesa di prender sonno, non immaginava affatto quanto stava per capitargli.  Quella notte che fu definita "degli imbrogli e dei sotterfugi", ricordate? "Embė, mo' che è 'sta cosa der Manzoni? Ma che ce stai affá n'esame?" mi chiederà qualcuno che magari ha avuto la forza e la pazienza di seguire fin qui quanto vado argomentando intorno a Napoli. "Eppoi annoi checce frega de 'sto Carneade, ma che è davero così 'mportante?" aggiungerà lo stesso qualcuno evidentemente esasperato.  Beh, debbo ammettere che non è poi così importante ricordare per filo e per segno tutto quanto si è letto o studiato, e lo faccio volentieri anche perché in questo caso la citazione è solo un pretesto per tentare la spiegazione di un nome  probabilmente sconosciuto ai più nella sua più profonda essenza, anche se ripetuto da tutti magari migliaia di volte. Dal punto di vista ambientale e culturale poi, nulla probabilmente è più distante dai quartieri partenopei delle locations dove fu ambientato il romanzo dei Promessi sposi. Da un lato abbiamo infatti un quartiere brulicante in qualsiasi ora del giorno e della notte dell' umanità più diversa. Un quartiere popolare nel cuore di una città antica, dove coesistono e convivono mille aspetti ed espressioni  volte tra loro anche contraddittori. "Napul'è mille culure"  cantava infatti Pino Daniele. Dall' altro ci immergiamo nella quiete e nei silenzi di un luogo solitario ai piedi di "monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo" , un luogo che sarebbe stato forse il più tranquillo al mondo se un balordo dal sangue blu non avesse fatto una scommessa oscena con uno dei suoi cugini, un disgraziato della stessa pasta chiamato Attilio.  "Ma allora qual'è la loggica, che ccentrano tralloro le montagne 'ndò c'abbiteno li balordi co' li quartieri 'ndò 'n se dorme mai?" mi incalzerà a questo punto quell' unico ostinato che starà continuando a leggere, magari più 'pe tigna  che per reale convincimento. Beh, a questo punto debbo riconoscere  che forse è un pò difficile seguire paralleli tra loro così diversi e distanti ma, con un minimo di fede e di calma, ariforse ci arriviamo tutti. Magari un po' per caso, come ci sono arrivato io. E' stato  infatti un po' per caso che durante un periodo di forzata inattività, cui da un po' di tempo sono costretto, mi sia caduto lo sguardo su di un recente articolo dell'Eco, quello dove si parla di spiriti, spiritelli e compagnia bella. C'è un passaggio, in quell' articolo, dove si cita, tra l'altro, "Lu cunto de li cunti" detto anche "Il pentamerone", un testo antico, scritto da Giambattista Basile ed edito a Napoli tra il 1634 ed il 1636. Orbene, se si  rammenta che "il romanzetto dove si tratta di promessi sposi" fu ambientato dalle parti di "quel braccio del lago di Como che volge a mezzogiorno" tra il 1628 ed il 1630 ecco, come per incanto, trovata la prima risposta alle domande del nostro superstite lettore. Le storie dei Promessi sposi e quelle del Pentamerone altro non sono due immagini della stessa Italia di quasi quattrocento anni fa, due immagini che più diverse non potrebbero essere, eppure così connesse, se non altro considerando l' identica essenza della classe all'epoca dominante  "Mamma mia, guasi quattro secoli fa! Ma checce frega annoi de storie tant'antiche?" Va bene le storie sono antiche, anzi antichissime lo riconosco, ma checce frega non possiamo dirlo, non ce lo possiamo proprio permettere. E' proprio in queste antiche storie, infatti, che affonda le sue radici più profonde l'albero della nostra esistenza, è proprio in esse che trova la forza per resistere alla furia degli eventi o di chi ci sovrasta. Quella furia che a volte su di noi si abbatte e pare volerci sradicare.  Va bene, ma ora torniamo al nostro Pentamerone che, per l'appunto, ho letto con  un  po' più di attenzione durante questi giorni di inattività obbligata ed in particolare ad una delle sue cinquanta fiabe, quella della terza giornata che s'intitola "Il bianco viso". L'eroina della fiaba che si chiama Renza e che è figlia di re, il re di Fossostretto, s'innamora del principe di Vignalarga ma la sua love story non è felice, anzi si conclude nel peggiore dei modi.  "Ahò Fossostretto, Vignalarga... Ma che te sei messo a giocà a mmononopoli?" Ma no, quale monopoli, la questione è ben più sottile e riguarda le considerazioni amare che esprime la nostra Renza quando capisce dove la porterà il suo destino. La sfortunata principessa si paragona infatti, pensate un poco, proprio alla Duchesca, allora divenuto luogo di malaffare e prostituzione. Prima no, prima la Duchesca era un castello edificato nel 1487 dal duca di Calabria, Alfonso d'Aragona, con tanto di giardino, almeno stando a quanto annota, nel  1924, Benedetto Croce nella sua traduzione dell'antico libro che da "Lu cunto de li cunti" fu ribattezzato ne "Il pentamerone - La fiaba delle fiabe".  "E comm'è che 'n castello diventò 'n posto de mignotte?" domanda ora il superstite lettore. Beh, lo spiega nella stessa nota sempre Benedetto Croce che con due parole liquida il tutto informandoci come tale Carlo V avesse regalato il tutto a tale Toledo che decise di "censire il luogo  per case" che poi furono di fatto costruite e che divennero ricettacolo di prostitute e gente di malavita.  "Anvedi, ma allora 'sti nobbili erano come li palazzinari che ce stanno oggi e che cambieno er piano regolatore pe' fasse li c... loro. Artro che monopoli!" Beh, giunti a questo punto non posso opporre argomentazioni al mio povero lettore e convenire con lui, purtroppo, che anche dopo secoli e secoli poche cose sono cambiate sotto il sole, sia quello di Napoli, sia quello di Pescarenico.  Renzo Marcuz 24  febbraio 2015
Renzo Marcuz
Locandina de LA GATTA CENERENTOLA opera teatrale scritta e musicata da Roberto De Simone, tratta dal Cunto de li Cunti di Giambattista Basile