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L’Eco di Roccasecca
Anno 20, n. 98
Dicembre 2015
con tanto di eroi e di eroina
Renzo Marcuz
Ma ci pensiamo, ogni tanto, a cosa voglia dire essere un emigrante? A me a volte
capita anche perché la sensazione di essere un po’ strano, estraneo, straniero,
forestiero, o… “forésto” come dicono lassù nel Nordest, terra dei miei genitori, ha
accompagnato quasi tutta la mia esistenza.
Così è capitato ogni volta che traslocavo perché papà cambiava la sede del suo
lavoro, e così capitò anche quando la scelta di andarmene fu mia e cambiai casa
per sposarmi ricominciando daccapo. Nuovi amici, nuovi ambienti, nuovo tutto.
Ogni volta la sensazione è stata quella. Una sensazione strana che provi quando
la gente che incontri per le strade non ti riconosce, e che ti fa quasi pensare di
essere diventato trasparente se non addirittura morto.
Una sensazione che all’inizio può essere anche dolorosa, poi pian piano ti abitui.
Poi, ma molto “poi” se non continui a spostarti, accade che il tuo essere straniero
cessi di botto e lo capisci dagli sguardi della gente che inizia a riconoscerti. Basta
un “Ciao!” gridato dal finestrino di una macchina di passaggio affinché ciò
avvenga, un semplice “ciao” accompagnato dal gesto della mano di qualcuno che
forse neanche hai capito chi sia basta a rassicurarti della tua esistenza, della tua
“appartenenza”.
Ma forse è allora che per un istante, rinasce in te il desiderio di ripartire,
andartene e tornare ad essere straniero. Un po’ come accadeva a Juliette
Binoche, la cioccolataia col mantello rosso, che quando il vento irrequieto del
Nord iniziava a soffiare chi la teneva?
Una delle ultime volte che mi è capitato di riflettere su queste cose, ricordando
cosa voglia dire essere strano, estraneo, straniero, ecc. ecc., è stata due o tre
anni or sono quando ci siamo ritrovati nella grande sala di una scuola media di
Ciampino, quella vicino alla ferrovia, perché Ilaria, nostra compagna del corso di
inglese, e filosofa per scelta di vita, vi aveva organizzato un incontro del “Caffè
filosofico”.
Era il secondo ed il suo tema, “Straniero” per l’appunto, ci prese subito la mano.
Dal ricordo di una canzone ormai antica che parlava di un tizio con una faccia da
straniero “ un po’ pirata, un po’ artista, un vagabondo, un musicista che ruba
quasi quanto dà…” subito tutti ci siamo messi a raccontare, e a raccontarci.
Ciascuno con sincerità, a volte con commozione, e chi ascoltava ha potuto
immaginare quanto gli altri andavano narrando credendo di vedere per davvero,
come su di uno schermo fantastico, i posti e le scene più diversi.
A me sono tornate alla mente dapprima le ricche città europee che mio nonno
aveva conosciuto da emigrante e di cui parlava con papà quando tornava in Italia
e veniva a trovarci a Roccasecca. In quei momenti nella piccola cucina del
Palazzone io, bambino, ascoltavo le sue storie seduto su di uno sgabellino di
legno e sentivo così pronunciare per la prima volta i nomi di Londra, Parigi,
Amsterdam, Eindhoven ed altri ancora. E mi pareva di vederlo, mio nonno, col
suo cappotto nero e una valigia di cartone girare di città in città armato solo del
suo mestiere di muratore e di una inguaribile fiducia, in se stesso e nel suo
prossimo.
Nonno Gigi parlava sempre con gratitudine dei Paesi dov’era andato e delle genti
che lo avevano accolto, ammirava e stimava tutti forse perché da tutti era stato
ammirato e stimato. Elogiava la Germania per la precisione del suo popolo ed
anche la Francia della quale era contentissimo; la chiamava “La grand mère de
l’Italie” forse per il fatto che in quel Paese, che per ultimo lo aveva accolto, alla
fine s’era fermato.
E dopo mi sono tornati alla mente i paesini sperduti delle regioni minerarie dove,
nel secolo scorso, erano gli Italiani ad essere stranieri assieme a Magrebini,
Spagnoli, Ungheresi e a tanti altri. Luoghi che conobbi meglio andando più volte a
trovare i nonni della Francia.
Quante volte tornai in uno di quei paesini lontani per riabbracciarli? Non lo so,
non lo ricordo, ricordo bene però l’ultima anche perché ero ormai grandino, avevo
quattordici anni, e soprattutto perché papà mi ci aveva mandato da solo tanto,
ormai conoscevo la strada!
La carte postale
A quel tempo il treno che ti ci portava partiva da Roma e non occorreva cambiarlo
con altri, era un treno cosiddetto ”sicuro” che ti portava quasi fino “a destino” e
bastava solo ricordarsi di scendere a Metz, la prima fermata dopo Strasburgo, per
non sbagliare. Dopo però bisognava andare a piedi fino a Place Sant Louis,
dov’era la stazione delle corriere che partivano per tutte le direzioni dell’Alsazia e
della Lorena stando ben attenti a prendere quella giusta,
quella che portava a Creutzwald. “Creutzwald la Croix” si chiamava a quel tempo
il paesino lontano dove vivevano i miei nonni e così era scritto sul muso della
corriera.
Anche quel tratto di viaggio che iniziava nel cuore della vecchia Metz mi piaceva
molto perché si attraversavano luoghi assai diversi da quelli visti durante la mia
ancor breve esistenza. Un percorso tortuoso per campagne dolcemente ondulate
con numerosi boschi ed ampi placidi fiumi solcati da lente chiatte cariche fino
all’orlo dei materiali più diversi. “Péniches” si chiamavano.
Si toccavano così un’infinità di piccoli paesi ed anche centri più grandi come
Boulay e Falck, tutti però connotati dai segni di un’economia essenzialmente
agricola.
In quei luoghi, infatti, le concimaie delle stalle dove la sera dopo aver governato
gli animali si accumulavano le loro lettiere di paglia, per l’appunto “ben
concimata”, erano dislocate proprio lungo le strade, principali o secondarie che
fossero. Quindi ben esposte alla vista di tutti, e purtroppo anche all’olfatto.
Il “profumo” che aleggiava per quei luoghi mi era ben noto essendo lo stesso che
fino agli anni sessanta aleggiava per i paesini del Friuli, solo che in Francia si
capiva immediatamente di cosa si trattasse. Bastava alzare lo sguardo.
Lungo il viaggio capitava pure di vedere personaggi strani, o per lo meno vestiti
stranamente.
Suore francesi coi loro caratteristici copricapo (anno 1969)
Ricordo che una volta vedemmo, ad una di quelle fermate, alcune suore con
copricapo molto particolari, come in Italia non ne avevo mai visti.
“Mamma, mamma i cow boys!” gridò mio fratello Marco, piccino e in braccio a
mamma, indicando con il ditino quelle appena viste attraverso il finestrino.
“C’est vrai, ils se rassemblent!” (E’ vero, si somigliano) disse l’autista con un
mezzo ghigno riprendendo la sua corsa. Bastava poco, allora, per colpire la
fantasia e restare impresso per sempre!
Infine la corriera arrivava a Creutzwald fermandosi sul grande piazzale dietro alla
chiesa antica, quello dove la domenica si faceva il mercato, e l’autista spegneva il
motore, segno inequivocabile che a quel punto il viaggio era concluso.
La vecchia chiesa e il piazzale
Per arrivare a casa rimaneva a questo punto solo un tratto da fare a piedi che,
però, era un po’ più lungo di quando andammo a Creutzwald la prima volta. I
nonni, infatti, non abitavano più in quella piccola vecchia casa col tetto spiovente,
un cortiletto interno ed un orticello sul retro dov’erano allora. Quella piccola casa
in puro stile prussiano dove viveva solo una coppia di anziani silenziosi, che mi
aveva accolto nel paese antico e che mi piaceva tanto, no. Ora abitavano in un
“fabbricatone” nuovo che sarebbe improprio definire “palazzo” e che si snodava in
cima ad una collina lontana dal centro storico.
Un serpentone di cemento armato prefabbricato, di quelli moderni: quattro piani
e dieci scale, o forse venti non so, con un banale tetto a terrazzo steso come un
lungo lenzuolo a coprire un’infinità di altre famiglie, tutte di immigrati.
I blocs di Creutzwald
Un po’ come il Corviale fatto a Roma alla fine del secolo passato da
amministratori e da urbanisti “illuminati” per stiparci le famiglie più umili con la
pretesa che vi fossero anche felici.
Eh già, perché così era stato deciso e… “vuolsi così dove si puote ciò che si vuole
e più non dimandare!”
Ma torniamo alla Francia dove quei serpentoni di cemento li chiamavano “Blocs” e
dove questo nome me ne richiamava alla mente un altro: “Lager”. Chissà perché.
Ricordo bene, comunque, come quelle famiglie che vivevano stipate l’una a
ridosso dell’altra fossero tutto sommato felici e come non ci fosse insofferenza in
quelle piccole “babeli” chiamate “bloc”, ma soprattutto tanta speranza!
Ricordo anche come si scambiassero piccole cortesie e all’ora di cena le porte
sui pianerottoli a volte si aprissero per offrire piatti caratteristici delle terre
d’origine, preparati per sentir meno le lontananze.
Nonna sembrava contenta in quella sua nuova casa forse perché non aveva
“padroni” cui render conto ed in quel minuscolo appartamento lontano dal centro
lei comunque era regina.
Ciò non toglie che quando andava al mercato con la sua vecchia bicicletta
francese e passava per quell’incrocio vicino ad un bistrot chiamato “Kinn” dove
iniziava la strada che portava alla sua prima casa, quella col tetto spiovente, non
vi rivolgesse un pensiero. Chissà che non desiderasse rincontrare la vecchia
proprietaria alsaziana, quella signora graziosa e sorridente che anni prima aveva
accolto me e mio padre e che mi aveva rimboccato le coperte? Quella signora,
silenziosa che mia nonna, usando un antico termine friulano, si ostinava a
chiamare “la bakàna”? Chissà! (Con il termine “bakàn” e “bakàna” venivano
chiamati, nella lingua friulana antica i possidenti, i ricchi, quelli la cui presenza
non passa inosservata. Oggi non si usa più)
Poi, tornando dal mercato e risalendo le lunghe vie che l’avrebbero riportata al
“bloc”, mia nonna era costretta a spingerla quella vecchia bicicletta che i francesi
chiamavano “le velò” e che invece era pesantissima e lenta.
Nonna con tutte le sporte della spesa infilate sul manubrio e la sciatica che
l’affliggeva non ce l’avrebbe mai fatta a pedalare su per la salita. E neanche io.
Riguadagnata comunque la sua casa la giornata scorreva serenamente, come
quella di tutte le altre donne, nell’attesa che tornassero anche gli uomini per cena
col loro fardello di fatica e di cose da raccontare.
Ristorante e bistrot a Creutwald de la Croix in una cartolina d’epoca
Nonno rientrava come al solito contento e preferiva giocare un po’ con me
ascoltando quello che gli dicevo, magari nel mio francese un po’ stentato. Parlava
poco del lavoro che in quel periodo gli davano da fare all’interno delle case in
costruzione, cose comunque leggere, di finitura e di decoro, che richiedevano
però una grande precisione.
Diverso era l’atteggiamento di Zio Dante più propenso a raccontare il suo lavoro,
alquanto pericoloso.
A quel tempo lavoravano entrambi con una ditta italo-francese, la Guerra e Tracy,
che costruiva palazzi e interi quartieri nelle città in espansione, andando a volte
anche molto lontano, e Zio Dante lavorava a cottimo rivestendo quei palazzi con
un mosaico industriale che si incollava sulle superfici delle facciate. All’epoca una
novità.
Per fare questo lavoro doveva stare molte ore su uno di quei ponteggi sospesi
che venivano ancorati ai tetti dei palazzi da completare e fatti calare col loro
carico di uomini, materiali e attrezzature.
Erano ponteggi che oscillavano maledettamente e quindi occorreva stare molto
attenti, parlare poco e lavorare molto se si voleva riportare a casa prima la pelle,
poi un bel gruzzolo.
Ed era forse per questo che lo zio Dante, dopo essere tornato a casa, prima si
sfogava un poco con la nonna quindi aspettava il dopocena per poter’ uscire a
incontrare gli amici e bere una birra. Magari al “Kinn” della città vecchia.
(segue)
Renzo Marcuz
11 novembre 2015
Un tizio con una
faccia da straniero