Roma, 1952 al teatro Valle va in scena l’Amleto
riscuotendo un grandissimo successo; 1958, 1959 e 1961 il
cinema italiano sforna tre capolavori, s’intitolano I SOLITI
IGNOTI, LA GRANDE GUERRA e IL SORPASSO, il
denominatore comune, la lieson, tra questi avvenimenti è
l’attore che ne è protagonista: Vittorio Gassman, il più
grande attore del teatro italiano di tutti i tempi e tra i
grandissimi del cinema.
Scrivere di Gassman significa narrare le gesta di una
leggenda, di un uomo di teatro innanzi tutto, ma anche di
spettacolo e di cultura che ha destato ammirazione in tutto il
mondo.
La carriera teatrale di Gassman ha inizio nel 1943, quando
recita ne LA NEMICA; da quel momento LA LEGGENDA
non si è fermata più, ha marciato a ritmi vorticosi attraverso
Shakespeare, Sofocle, Alfieri, Kafka, Pirandello, recital di
poesia.
Al cinema il boom è meno immediato, arriva quando
Gassman ha già 36 anni ma I soliti ignoti, Il sorpasso, i due
Brancaleone (di cui il Mattatore ebbe a dire con la sua
amabilissima civetteria come rientrassero nel novero dei
“pochi film che brucerei malvolentieri”) sono stati
grandissimi successi. Gassman aveva tutto per essere un
grande attore, il fisico atletico, una faccia da statua classica,
una voce inconfondibile e indimenticabile, l’aria da bel
mascalzone; condite il tutto con una buona dose
d’egocentrismo ed esibizionismo e il cocktail esplosivo è
servito.
Gassman deve la sua affermazione nel cinema a due
maschere indossate grazie alla collaborazione con Mario
Monicelli (che ebbe la brillante intuizione d’imporlo come
attore comico, lui grande attore drammatico) e Dino Risi.
Con il primo Gassman indossa la maschera popolaresca: il
Mattatore è un fanfarone (l’armata Brancaleone), un
tartaglione vanaglorioso ed incapace (i soliti ignoti) che
sfodera l’arroganza per coprire un’evidente timidezza. Uno
dei più stimati critici cinematografici italiani, Brunetta, ha
tessuto un parallelo tra i personaggi interpretati da
Gassman e il Miles Gloriosus di Plauto. Nella
collaborazione con Dino Risi Gassman ha invece elaborato
una maschera borghese, venata di feroce amarezza; il
Mattatore indossa i panni del borghese arrivato e cinico che
comincia a scoprire i segnali di crisi dentro se stesso
riflettendola sugli altri. Film come IL SORPASSO, LA
MARCIA SU ROMA e IL PROFETA ne sono la
testimonianza più diretta.
Nel 1969 inizia la seconda parte della carriera
cinematografica di Gassman con il film L’ALIBI, codiretto
con due tra gli amici-colleghi più stretti Adolfo Celi e Luciano
Lucignani, film nel quale Gassman fa un primo sconsolato
bilancio della sua esistenza di quasi cinquant’enne. Tra gli
anni 60 e 70 Gassman inizia così a visitare una galleria di
personaggi che aiutano a fornire il ritratto dell’Italia
dell’epoca: il gretto, il rampante, l’aggressivo, l’impudente.
Negli anni 80 la maschera cinematografica di Gassman s’
immalinconisce, si fa più intima, meno cialtronesca e
sfrontata, diventando quasi delicata. Sono gli anni della
collaborazione con un altro grande regista Ettore Scola,
(che già lo aveva diretto nel 1974 in C’ERAVAMO TANTO
AMATI),con il quale gira LA TERRAZZA, LA FAMIGLIA, LA
CENA.
Oramai la recitazione del Mattatore si è fatta trattenuta,
interiore, quasi pudica.
Da queste mie prime note risulta chiaramente come la
carriera di Gassman sia stata fortemente “strabica”: egli ha
infatti frequentato sia il teatro, sia il cinema con eguale,
costante, grande successo, e non sono molti gli attori a
poter vantare questa caratteristica. Gassman si è sempre
ritenuto un attore teatrale, considerando, per contro, il
cinema alla stregua di un passatempo stravagante.
Tuttavia, il Mattatore ben sapeva che la popolarità
regalatagli dal cinema non poteva ottenerla solo con il
teatro. In “Intervista sul teatro” (curato da Luciano
Lucignani) il Mattatore spiega così il suo rapporto con la
settima arte: “Nel cinema si tratta di farsi vedere. La vista
indubbiamente è prevalente sull’udito. In teatro mi sono
sempre sentito a mio agio perché avevo la possibilità di
adoperare, oltre alle mie qualità, i miei difetti, i miei errori, di
aver il timone in mano cioè”.
Vittorio Gassman ha scritto tantissimo, soprattutto dai
sessant’anni in poi, e la sua produzione è stata
fortunatamente bulimica ed eccessiva come la sua carriera
d’attore: memorialistica, saggistica, narrativa, poesia. Il suo
esordio (escludendo ovviamente le traduzioni e gli
adattamenti dei testi originali dei suoi spettacoli) fu la
memorabile autobiografia UN GRANDE AVVENIRE
DIETRO LE SPALLE, in cui il Mattatore ripercorre le tappe
dei suoi primi trent’anni di carriera (il libro è del 1981), e con
infallibile istrionismo si straparla addosso, seguendo il suo
istinto più saldo e pervicace: essere il centro d’attrazione
unico. Nella scrittura di Gassman si coglie una volontà
impudica di mostrarsi senza ritegno, ai limiti del blasfemo
verso se stesso.
Scritta con evidenti auspici terapeutici, come afferma lo
stesso autore “da quando ho cominciato a scrivere queste
memorie, sto nettamente meglio. Sono più giorni che scrivo
al tavolino, senza cambiare posizione ogni dieci minuti per
andare a smuovere meccanicamente le file dei libri allineate
nella biblioteca”, questa autobiografia, logorroica e
sfrontata, prima ancora di stupire per ciò che racconta,
stupisce per come è scritta. Gassman passa con
disinvoltura dal presente al passato, dalla prima alla terza
persona,per chiudere con una tirata di circa venti pagine in
cui abolisce la punteggiatura. Cogliendo tra gli
episodi narrati (ma rammentiamo sempre ciò che
Gassman amava dire di se stesso e cioè che un
attore è un mentitore di professione, inaffidabile ed
insincero) come non citare quello accaduto nei primi
anni cinquanta, durante il primo sbarco ad
Hollywood del nostro eroe. Il Mattatore doveva
affrontare un’intervista con una delle più importanti
giornaliste dell’establishment hollywoodiano, tal
Louella Parson; una delle prerogative della
giornalista era quella di essere profondamente
cattolica. Nonostante le raccomandazioni dei press
agents di tenere un profilo bassissimo nelle risposte
date durante l’intervista, quando Gassman si sentì
chiedere cosa pensasse del papa, la risposta fu
un’autentica cannonata:”il papa? Ah, sì, fantastico
spesso di ucciderlo”. In una risposta così fulminea e
fulminante è racchiusa la grandezza del
personaggio e dell’uomo, dell’attore e dell’essere
umano.
Iconoclasta fino all’autolesionismo, con impulsi di
sincerità inconsulta, forse necessaria a riequilibrare
la necessità di dover fingere per contratto. A tal
proposito Gassman ebbe a dire (INTERVISTA SUL
TEATRO) come il mestiere dell’attore ha un
rapporto strettissimo con la malattia: “l’attore rischia
la frattura dell’io individuale, la schizofrenia, oppure
l’angoscia ancestrale del non essere più nessuno”;
a ciò Gassman aggiungeva un’acuta osservazione
sull’esibizionismo degli artisti: “quello dell’attore è un
mestiere che invita continuamente ad esporsi,
anche in senso fisico. Norman Brown, parlando da
un punto di vista psicoanalitico, sostiene che il
rapporto fra attore e pubblico è quello tipico
dell’esibizionista sessuale e lo spettatore in questo
caso è un ‘voyeur’ ”. Esiste, d’altronde, anche un
esibizionismo emotivo, che, spiega Gassman,
comporta: “un tipo di finzione e di violenza molto
particolare” e durante la rappresentazione l’attore
deve avere la capacità di conservare un po’ di
lucidità: “soffrire il pathos, e al tempo stesso
incasellarlo per riutilizzarlo”, serve cioè un
autocontrollo che a volte è difficile da mantenere,
come accade a Gassman nell’interpretare Otello,
con la vicenda del quale si rischia
un’immedesimazione pressoché totale e questo è,
afferma Gassman: “un viaggio molto doloroso” a cui
egli si sottrae, almeno in parte grazie al fatto che gli
ultimi momenti della tragedia di William
Shakespeare sono in versi e i versi esigono “un
attenzione tecnica formale. Che è per me, qualcosa
come un ancora di salvezza, mi assicura un minimo
d’autocontrollo, una difesa dal pericolo”.
Come ogni grande Gassman aveva una sincera
antipatia per la morte, definita di volta in volta
“incongrua”, “immorale”, “non accettabile”, “nota
stonata”. Nella sua autobiografia Gassman
puntualizza:”che Dio abbia azzeccato tutto tranne la
durata della vita?”, nel suo caso questo dubbio è
lecito porselo. Gassman è stato un artista poliedrico,
non si è mai accontentato di nulla, si è sempre
ritagliato nuovi spazi: attore immenso, romanziere,
regista, polemista.
Io ho avuto la possibilità di vedere Gassman recitare
a teatro una sola volta: al teatro Quirino di Roma nel
1983, il Mattatore portava in scena Macbeth.
Ricordo che l’entrata in scena dell’attore avveniva
nella penombra del palcoscenico, così prima ancora
di vederlo in carne e ossa si percepì la presenza di
Gassman, il suo magnetismo aveva già invaso il
teatro. Alla fine dello spettacolo Livia, la mia
affascinante accompagnatrice dell’epoca, mi
propose di scendere nei camerini. Non essendo
granché aduso agli usi e costumi del teatro, rimasi
sorpreso, ma aderii entusiasticamente. Entrammo
nel camerino in punta di piedi, io mi limitai a
stringergli la mano e a biascicare qualche
complimento di circostanza. Ma il ricordo più forte è
quello visivo: Vittorio Gassman era seduto su una
sedia, un braccio appoggiato sul tavolino, indossava
un accappatoio bianco, visibilmente stravolto dalla
rappresentazione appena conclusa, sul viso,
incorniciato da un ispida barba, aveva stampato un
sorriso tirato ma visibilmente soddisfatto, forse
anche per quei due ragazzi che erano accorsi a
vederlo e ad omaggiarlo.
Anche mamma ebbe un piccolo incontro con
Gassman, accadde a via Appennini dove lei stava
prendendo lezioni di guida e dove in quel periodo
abitava l’attore. Ebbene nel fare una manovra a
retromarcia mamma quasi investì Gassman, che
sbottò in un:”ma che non me vedi. Eppure sò alto!”,
per poi andarsene gesticolando.
Il Mattatore ha disseminato le sue interpretazioni di
tante gemme; io scelgosceglierei: il tenero addio ad
Abacucco (Carlo Pisacane-Capannelle) ne
L’ARMATA BRANCALEONE; la cronaca della partita
che Peppe er pantera fa al commissario in
L’AUDACE COLPO DEI SOLITI IGNOTI; la lettura
del V canto dell’Inferno e del XXXIII del Paradiso.
L’arte di Vittorio Gassman è immortale e resterà nel
tempo, come Dante e la sua Divina Commedia,
entrambi l’immortalità.
Gianni Sarro
Vittorio Gassman
IL MATTATORE
(di Gianni Sarro dal n-ro 49 dicembre 2004 )
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