medaglia.
Del resto le Olimpiadi di Città del Messico furono
precedute da eventi epocali. Sei mesi prima a
Memphis era stato assassinato Mar-tin Luther
King. Subito dopo a Los Angeles, avevano fatto
fuori Robert Kennedy. Il so-gno americano listato
a lutto. Gli atleti di colore riuniti attorno al
“Progetto olimpico per i diritti umani” una
associazione contro le discriminazioni razziali
promossa da Harry Edwards, sociologo e attivista
con un passato da lanciatore del disco, il
'Professor Prote-sta' di uno dei tanti campus in
fermento contro la guerra del Vietnam, avevano
discusso tra loro la possibilità di boicottare
l'appuntamento dei Giochi del Messico. Non
volevano essere semplicemente i cavalli da corsa
dei bianchi, chiedevano allenatori neri da
aggregare alla squadra americana, contestavano
la riammissione del Sud Africa razzista nella
famiglia dei cinque cerchi. Moltissimi fermenti
antirazzisti avevano attraver-sato lo sport
americano in quegli anni.
Nella primavera del '67 Muhammad Ali aveva
rifiutato l'arruolamento nell'esercito per motivi di
coscienza, vedendosi togliere la corona dei pesi
massimi. Kareem Abdul Jabbar, che all'epoca era
ancora un cestista universitario chiamato Lew
Alcindor in quan-to solo dopo avrebbe deciso di
cambiare nome, rinunciò a un posto nella
nazionale olimpica.
Comunque alla fine delle discussioni la proposta
di boicottaggio non passò. Gli atleti decisero di
partecipare ma concordarono anche che ognuno
avrebbe deciso di adottare un gesto simbolico e
rispettoso che richia-masse l'attenzione su una
giusta causa.
L'apertura dell'Olimpiade messicana fu preceduta
di pochi giorni dalla strage degli studenti a piazza
delle Tre Culture, un corteo represso nel sangue
davanti ad atleti e giornalisti internazionali. Ai
Giochi, gli atleti di colore americani misero in atto
il piano adottato nell’ambito del Progetto olimpico
per i diritti umani”.
Così Smith e Carlos non furono gli unici a sentire
il vento del cambiamento soffiare alle loro spalle.
Dopo di loro, i quattrocentisti Usa Lee Evans, Ron
Freeman e Larry James salirono sul podio col
basco nero in testa, salutando col pugno chiuso.
Bob Beamon con un salto lunare atterò a 8.90,
riscrisse il libro dei record nel salto in lungo e
andò a ritirare la medaglia d'oro con i calzettoni
neri tirati su per protesta. La ginnasta
cecoslovacca Vera Caslavska vinse quattro ori e
due argenti e quando fu suonato l'inno sovietico
dell'avversaria Natalia Kuchinskaya abbassò la
testa in silenzio contro i carri armati che avevano
invaso il suo paese un mese prima. A cambiare la
storia dello sport olimpico e l'iconografia del '68
fu però quel podio nero dei 200 metri. La foto
originale scattata dalla Nikon del fotografo John
Dominis alle 20.41 del 16 ottobre 1968 ferma il
tempo, immortala l’istante, consegna alla Storia
dello sport una delle sue immagini più celebri.
Non serve gridare. Fare discorsi. Sono i corpi a
parlare. Il linguaggio della protesta è fatto di
carne come quella delle migliaia di neri americani
uccisi dall’odio razziale e dalle forze dell’ordine. È
sufficiente un istante e i corpi di Tommie Smith e
John Carlos rompono gli schemi, bucano
l’indifferenza, ribaltano l’immaginario dominante.
I migliori atleti da corsa a stelle strisce si
trasformano in moltitudine nera e manifestano in
mondovisione l’orgoglio di un popolo. Una
denuncia lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Una condanna più dura ed evidente di qualsiasi
tribunale bianco. La condanna della Storia.
Nel 2005 alla San Josè State University fu
inaugurata una statua dedicata all’episodio di
città del Messico. Lo scultore ha ritratto il podio
olimpico con il secondo gradino, quello occupato
da Peter Norman, vuoto. Proprio quest’ultimo
durante la cerimonia di inaugurazione spiegò il
senso di quel vuoto : “Il mio corpo non c’è, non
perché io non fossi solidale con la loro lotta, ma
perché ciascuno di voi possa avere l’onore di
essere complice e stare al fianco di Tommie e
John”.
Aveva 26 anni Norman nel 1968. In quella finale
dei 200 metri finì secondo, ma comprese negli
spogliatoi di essere finito anche nel bel mezzo
della Storia.
Si avvicinò ai suoi due avversari che intanto in
attesa della premiazione concordavano il da farsi
tenendo in mano un paio di guanti neri comperati
dalla moglie di Tommie Smith. Quando capì quello
che Tommie e John intendevano fare si rese
subito solidale accettando di indossare la famosa
spilla recante il simbolo del “Progetto olimpico
dei diritti Umani”. Norman nella sua Melbourne
aveva vissuto in prima persona la
discriminazione razziale nei confronti degli
aborigeni, era membro dell’Esercito della
Salvezza, e decise su due piedi di condividere la
protesta. Anzi, fu lui a suggerire a Smith e
Carlos di dividersi i guanti, indossandone uno
per ciascuno, così come la foto li ha immortalati.
Ne scaturì una miscela esplosiva.
Una protesta silente ma clamorosa, muta ma
fragorosa, pacifica ma devastante. I due atleti
hanno poi confessato di aver temuto sino
all’ultimo durante la cerimonia e sino
all’abbandono dello stadio di poter essere
assassinati da qualche cecchino appostato sugli
spalti. Non c’erano i controlli odierni, non
c’erano misure di sicurezza così sofisticate come
quelle purtroppo necessarie oggi attorno ad un
evento sportivo mondiale. Così non fu e i due,
oggi più ultraottantenni, hanno continuato a
rappresentare una pro-testa vivente contro il
razzismo.
Quel gesto però non fu indolore per i tre atleti
protagonisti. Norman fu duramente ripreso dai
dirigenti australiani e ai giochi successivi di
Montreal non fu neanche convocato nonostante
avesse i tempi richiesti. A Smith e Carlos andò
molto peggio.
Il pugno destro di Smith era la forza dell'A-
merica nera. Quello sinistro di Carlos la sua
unità. I piedi nudi avvolti nei calzini neri lo stato
di povertà in cui il loro popolo versava da
sempre. La testa piegata durante l'esecu-zione
dell'inno un omaggio a tutti quelli che avevano
perso la vita per la libertà. Il pub-blico fischiò,
applaudì, gridò: in pochi si resero conto sul
momento di quello che stava succedendo. La
reazione del Comitato olimpico internazionale fu
immediata. I due atleti furono sospesi dalla
squadra americana ed espulsi dal villaggio olim-
pico, accusati di aver ricevuto soldi sottobanco.
Rispediti in patria, furono a lungo minacciati di
morte dal Ku Klux Klan, persero il lavoro,
corsero il rischio di vedersi ritirare le medaglie.
Il sistema doveva dimostrare che quel gesto li
aveva distrutti affinché nessun altro ci
riprovasse più. L'esercito cacciò Smith per
attività anti-mericane : volevano punirlo. Carlos,
dopo una breve esperienza nel football
americano, si ridusse a fare il buttafuori nei
locali. Però sono sopravvissuti entrambi.
Anni dopo Tommie Smith diventò un professore
di sociologia e di ginnastica in un picco-lo
college a Santa Monica. Non si è mai pentito, ha
sempre sorriso ai suoi studenti che gli
chiedevano ‘'coach ma se sei così famoso,
perché stai qui con noi?'’. John Carlos è stato
l'allenatore di atletica di un liceo di Palm
Springs, cristiano, si è occupato di servizi sociali.
Norman invece è scomparso nel 2006 per un
attacco di cuore e a portare la bara a Melbourne
c'erano Tommie Smith e John Carlos. Gli sprinter
che fecero la rivoluzione con un pugno, senza
far male a nessuno.
Ferdi
Tommie Smith e John Carlos (Ferdinando) pag. 2/2
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