famiglia
con
un
solo
figlio,
quale
era
quella
di
mio
nonno,
quindi
non
molto
oneroso
come
bocca
da
sfamare.
A
quei
tempi
quella
famiglia
viveva
in
una
casina
ai
piedi
del
monte
Spia,
vicino
ad
una
piccola
chiesa
detta
“de
la
Madonùta”
(della
Madonnina)
e
prospiciente
un
cortile
proprio
dietro
all’asilo
delle
monache
di
Montereale.
Una
piccola
casa
con
due
camere
a
pianterreno,
due
al
primo
piano
e
il
bagno
sul
retro,
nell’orto.
Per
la
verità
quelle
al
piano
terreno
non
erano
due
camere
vere
e
proprie
ma
una
cucina
e
una
stalla,
con
tanto
di
mangiatoia
in
pietra
per
un
paio
di
animali.
Forse due mucche, non so.
C’è
ancora
quella
casina,
rimasta
in
piedi
nonostante
i
terremoti
del
settantasei,
ed
è
praticamente
la
stessa
da
più
di
un
secolo,
forse
due.
Eccola
in
una
foto
di
non molto tempo fa.
La casina ai piedi del monte Spia
I
vecchi
raccontavano
che
in
quella
casa
vivesse
anche
il
mio
bisnonno
Celeste,
vedovo
più
volte.
Qualcheduno
diceva
pure
che
le
mogli
le
fece
morire
lui,
col
suo
cattivo
carattere,
ma
neanche
di
questo
posso
essere
certo
poiché
si
trattava
si
antiche
storie
di
paese
magari
ingigantite
ad
arte
per
raccontarle
accanto
al
fuoco
durante
le
notti
dei
lunghi
inverni
friulani.
Storie
risalenti
a
molti,
moltissimi
anni
fa,
ben
prima
dell’avvento
della
televisione,
quando
gli
anziani
si
scambiavano
le
visite
del
dopo
cena
per
fare
qualche
chiacchiera,
magari
condita
con
un
bicchiere
di
vino
rosso accompagnato da un tocchetto di polenta.
Ora,
forse
perché
il
mio
bisnonno
aveva
carattere
non
propriamente
celestiale
o
forse
perché
la
nostra
famiglia
agli
inizi
del
secolo
scorso
ebbe
qualche
problema
di
tipo
economico,
ricordo
anche
come
nonno
Gigi
parlasse
spesso
e
volentieri
di
Arba
dove
era
stato
mandato
a
vivere
da
ragazzo,
per
un
lungo
periodo.
A
casa di chi non lo so.
Si
tenga
a
questo
punto
presente
che
Arba
era,
ed
è,
un
paesino
sorto
su
di
un
lembo
di
territorio
poverissimo
alla
confluenza
tra
due
torrenti
sassosi,
il
Colvera
e
il
Meduna.
Una
specie
di
Mesopotamia
del
Nord Est in corrispondenza di un antico guado.
D’estate
niente
acqua,
quei
torrenti
sono
solo
immense
pietraie
bianche
buone
al
massimo
per
prendere
i
sassi
con
cui
costruire
case,
quelle
che
tutti
in
Friuli
possedevano,
anche
i
più
poveri.
E’
questo
che,
forse,
ha
alimentato
il
detto
dei
Friulani
posseduti
dal
“mal
della
pietra”,
oltre,
beninteso,
da
quello
del
lavoro.
“
Ciarniei
cence
Diu,
cence
Signour,
dÔme
lavoru!
”
(Gente
della
Carnia
senza
Dio,
senza
Signore,
solo
lavoro) dicevano un tempo.
Il
pensare
però
che
nonno
Gigi,
il
ragazzo
Gigi,
per
sopravvivere
avesse
dovuto
trovare
rifugio
ad
Arba
mi
ha sempre procurato un senso di angoscia.
"E perché angoscia?" mi si chiederà.
Ecco
l'angoscia
discende
da
fatto
di
essere
consapevole
che
quel
paesino
era
costituito
solo
da
quattro
misere
case
aggrappate
ad
un
fazzolettino
di
terra
arida
e
magra alla confluenza di due fiumi.
“Magredi” vengono chiamate quelle terre, buone al
massimo per andarci a caccia e così è sempre stato.
Magredi del Friuli Occidentale
Ma
che
dico
un
fazzolettino?
uno...
straccetto,
di
quelli
che
il
vento
freddo
e
teso
che
scende
dall'Austria
poteva
far volare via quando voleva. Bastava solo che volesse.
Ma
non
era
propriamente
la
questione
del
vento
a
darmi
angoscia
e
pena,
o
meglio
non
solo
quella.
Quello
che
mi
angustiava
era
il
pensiero
dell'acqua
che
d'inverno
si
scarica
dai
monti
quando
piove
giorni
e
giorni
di
seguito
e
sembra
non
volerla
mai
smettere.
Dell'acqua
che
riempie
i
fiumi
ed
i
torrenti
da
una
sponda
all'altra,
per
larghi
che
possano
essere
quei
fiumi,
per
distanti
che
possano essere quelle sponde.
Dell'acqua
che
diventa
biancastra
per
il
colore
della
sabbia
e
dei
ciottoli
strappati
agli
alvei
di
monte
e
che
trascina
verso
valle
come
fossero
pagliuzze
e
poi
li
sposta
verso
i
fiumi
più
ampi,
eppoi
verso
le
lagune,
eppoi verso il mare.
L'Adriatico dove tutto, alla fine, si cheta e trova la sua
Straniero (Renzo Marcuz)
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