Io cercavo di tenermi il più lontano possibile e, senza farmi vedere, puntavo anche un po’ i piedi sul pavimento per non volare via come un foglio di carta. La valigia che avevamo con noi non era grande ma pesava molto lo stesso ed era stretta da una cordicella per evitare che le chiusure cedessero e si aprisse all’improvviso. Era stata messa per terra, vicino al corridoio che portava all’ufficetto dell’impiegato postale. Un tavolino con una sedia girevole, tutto di legno chiaro e lucido e, attaccato ad una parete dove finiva anche il tavolino, un classificatore, anch’esso di legno chiaro e lucido, dove si  smistavano le lettere e le cartoline: questo era l’arredamento di quell’ufficetto. Una camicia bianca con relativo gilè nero, mezze maniche anche nere ed una visiera senza cappello attaccata alla fronte con un elastico, proprio come nei film western: questo era l’abbigliamento di quell’impiegato. Lavorava ininterrottamente, con gli occhialetti sul naso, a timbrare e a scrivere sui suoi registri, magari imprecando quando c’era qualcosa che non andava. Poi, ogni tanto, si fermava per accendersi una sigaretta e scambiava qualche veloce battuta con quegli altri che stavano nel bagagliaio discutendo animatamente di tutto e di niente. A me lanciava occhiate strane  e mi sembrava non capisse che diavolo ci stava a fare, quella mattina, un moccioso sul suo bagagliaio, ma non mi disse nulla. Io, dal mio angoletto, lo guardavo ingrugnito e con la testa un po’ abbassata sperando solo che non mi buttasse fuori dal portellone. Papà se ne fregava, fumava e chiacchierava con gli amici. Per farmi passare il tempo mi aveva comprato un settimana enigmistica che avevo iniziato a fare  con una matita copiativa poggiandomi sul quel tavolino pieno di vento. Ogni tanto qualcuno degli amici di papà mi diceva, con accento ciociaro: “E’ pesante, eh?”, ma io non capivo. Mi chiedevo perché mai quella specie di giornaletto con scacchiere e qualche figura dovesse pesare più degli altri mentre loro volevano solo dire che doveva
essere un po’ difficile da fare per un ragazzino della mia età. Ma io proprio non li capivo. Capitava anche che il treno entrasse in galleria e tutto diventasse buio tranne l’ufficetto del postino che timbrava e scriveva sui registri. Allora anche i grandi tacevano, forse anche loro intimiditi dal frastuono che il treno creava nella galleria e dal fumo della vaporiera che entrava attraverso quel portellone aperto. Il rumore era terrificante e invadeva il bagagliaio come un demonio che dovesse terrorizzare le sue vittime prima di carpirne una da portare via per sempre, prima ancora che quell’antro d’inferno avesse termine. In quei momenti cercavo tapparmi il più possibile le orecchie con le mani e tenevo gli occhi chiusi per non vedere nulla anche se intorno a me tutto era diventato nero come la pece. Ogni tanto li aprivo sperando che la galleria fosse finita ma vedevo solo le tracce rosse delle sigarette che fumavano i grandi. Salivano e scendevano in quel buio assordante e nient’altro. Tutto questo si ripeteva ad ogni galleria e quando finivano papà mi lanciava un’occhiata per vedere se c’ero ancora, poi ricominciava a parlare con gli altri. Finalmente arrivammo a Roma Termini mio padre salutò il postino ed i suoi amici che scesero con un salto dal portellone. Prese la valigia, mi diede la mano e ce ne andammo verso la città. A questo punto, però, tutto mi interessava un po’ meno frastornato com’ero da quel viaggio così strano e così straordinario, con un portellone aperto  che ti poteva far volare via come un foglio di carta.  Tutto sommato però mi era piaciuto, mi sembrava che quell’esperienza mi avesse fatto diventare un po’ più grande e forse era proprio così. L’avrei raccontata senz’altro ai miei amici una volta tornato a Roccasecca e l’avrei arricchita con mille particolari suggeriti da una fantasia che faticavo a tenere a freno. A mamma no, non avrei detto nulla, perché si sarebbe dispiaciuta per tutta quell’aria e quel rumore. Renzo Marcuz … 2013 Immagine: dipinto di Teresa Puiatti
Come foglio di carta (Renzo Marcuz)
L’Eco di Roccasecca - Anno 21 - n-ro 102
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La famiglia Matassa
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