COME UN FOGLIO DI CARTA
Avevo più o meno sette anni quando andai per la prima volta a Roma a trovare gli zii che mi avrebbero ospitato per qualche giorno e feci il viaggio in treno, con papà. Era una splendida mattinata di inizio estate e c’era voluto molto poco per raggiungere la stazione dal palazzo dei ferrovieri di Roccasecca Scalo, dove abitavo con la mia famiglia. Era infatti bastato traversare un giardinetto su cui affacciavano le finestre del nostro appartamento, scendere due scalette fatte “alla benemmeglio” con traverse di legno delle ferrovie, superare un binario dove si fermavano sempre le locomotive a vapore per rifornirsi di acqua ed a pulire la caldaia, passare vicino ad un fabbricatino dell’Ufficio IES Impianti Elettrici e Segnalamento dove gli operai mettevano le batterie dei treni per farle ricaricare, ed eravamo in stazione . Sembra molto ma in realtà era pochissimo. Il treno che ci avrebbe portati a Roma veniva da Cassino e si capiva che stava per arrivare dal trillo  forsennato di una campanella d’ottone attaccata al muro vicino all’ufficio del Capostazione. Poi, quando si acchetava, veniva spontaneo guardare nella direzione da dove lo aspettavamo. Si vedeva all’inizio solo uno sbuffo di fumo bianco che saliva verso il cielo, poi diventava sempre più grande e sempre più bianco finché cominciava a distinguersi anche la locomotiva, nera e lucida. Quindi si riconosceva tutto il treno che arrivava in stazione sferragliando e alla fine  si fermava con uno grande stridore di freni. Allora le porte delle carrozze si aprivano e la gente saliva e scendeva contenta, con le mamme che prendevano in braccio i bambini e i ragazzi che scappavano via di corsa. Durante la sosta quella locomotiva così nera e così lucida faceva un rumore strano, metallico, che pareva quasi una canzone: Da-dan da-dan Da-dan da-dan Da-dan da-dan  era il suono e sembrava che la grande macchina fosse un essere come tutti gli altri che doveva  riprendere un po’ di fiato prima di lanciarsi nuovamente nella folle corsa verso la stazione successiva. Intanto il macchinista e il fuochista controllavano
tutto affinché quel mostro metallico, straordinario ed obbediente, potesse ripartire puntuale al loro comando. Mi sembravano uomini coraggiosi, orgogliosi e contenti del loro lavoro, che curavano la loro locomotiva più e meglio di qualsiasi altra cosa al mondo. Era gente capace di far andare il treno con qualsiasi caldo e con qualsiasi freddo e durante tutto il tempo in cui il convoglio correva sulle rotaie divorando le distanze il macchinista guardava lontano i segnali ferroviari   socchiudendo gli occhi per vedere bene, senza sbagliarsi mai. Intanto  il fuochista caricava carbone nella fornace ardente, palate su palate, ma non mollava. Poi, quando si fermavano nella stazione, allora potevano rilassarsi un attimo  e i loro volti si distendevano. Quello del macchinista era annerito dal fumo ma vicino agli occhi che aveva socchiuso per vedere meglio la pelle era rimasta bianca e sembrava che il suo viso fosse come tatuato, con quelle linee chiare che si erano formate. Quello del fuochista era pure lui annerito ma un po’ più stanco ed anche rosso per la fatica e la vicinanza alla fornace che aveva alimentato a forza di braccia, senza smettere mai . Io e papà eravamo quindi saliti su quel  treno  che ci avrebbe portati a Roma e l’avevamo fatto dopo avere salutato per l’ultima volta mamma, da lontano, poco prima di voltare l’angolo dell’Ufficio IES. Avevamo preso posto nel bagagliaio postale, una carrozza diversa dalle altre, messa proprio all’inizio. Era infatti agganciata al tender nero della locomotiva, quello che portava il carbone, e dentro c’erano due o tre ferrovieri oltre ai postini; mio padre aveva visto alcuni suoi amici e voleva parlare con loro. Questa strana carrozza, come oggi non se ne vedono più, aveva, come caratteristica particolare, un finestrino sporgente da dove l’addetto al servizio postale poteva guardare lungo le fiancate di tutto il treno. Riusciva così a capire dove si trovava il collega che lo aspettava con il carrettino sui marciapiedi delle  stazioni  e chiamarlo per caricare e scaricare. Tutto questo mi ricordava le scene dei film western che si proiettavano il sabato sera a Roccasecca in un Magazzino Merci dello Scalo ferroviario proprio vicino alla stazione, poco oltre il Dopolavoro. Anche il posto dov’ero seduto io era strano: un grande locale vuoto con qualche scatolone messo da un lato ed alcuni sacchi di iuta con dentro le lettere un po’ afflosciati per terra, pronti per essere scaricati alle stazioni  dove il treno si sarebbe fermato. I pochi sedili  disponibili erano attaccati alle pareti e per sedere si doveva abbassarli. Mio padre parlava con i suoi amici postini ed io me ne stavo rannicchiato su uno di questi sedili strani e mi appoggiavo su di un tavolino che era stato aperto davanti a me, anche questo curioso perché si alzava e si abbassava. Ascoltavo quello che i grandi dicevano mentre guardavo fuori attraverso un portellone scorrevole che era rimasto aperto. Era enorme, andava dal pavimento al soffitto e non c’era nulla che impedisse di essere trascinati via dal vento, solo una sbarra orizzontale a metà altezza che quando il treno si fermava ad una stazione veniva sollevata per caricare o scaricare i pacchi.
(di Renco Marcuz)
L’Eco di Roccasecca - Anno 21 - n-ro 102
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