L’Eco di Roccasecca - Anno 22 - n-ro 104
La pistola delle Giubbe rosse Chi sono le Giubbe rosse? Non è poi così immediato rispondere a questa domanda anche se oggi, volendo sapere qualcosa al volo su di un argomento qualsiasi, si può risolvere rapidamente ogni situazione digitando su internet il nome o la frase che ci  interessa. Poi? Poi occorre districarsi alla benemmeglio tra le migliaia di risposte che sempre compaiono sul monitor ottenendo, spesso, un risultato abbastanza prossimo alla realtà. Anch’io, nella fattispecie, ho digitato  Giubbe rosse, ma non è che ne avessi una reale necessità. So infatti da sempre che  questo nome corrisponde alla mitica polizia a cavallo canadese e mi domando quanti possano davvero non conoscerle. Con in testa il cappello rigido, rotondo e a larghe tese, la giubba rossa abbottonata fino al collo e la pistola d’ordinanza chiusa nella fondina di cuoio, ma assicurata con una cordicella, forse  per non perderla durante le cavalcate a spron battuto attraverso le grandi foreste nordamericane, le Giubbe rosse sono infatti, a mio giudizio, davvero inconfondibili. La prima volta che ne ebbi  conoscenza fu verso la fine degli anni 50 leggendo i giornaletti con i miei compagni d’infanzia, tutti seduti sulle traverse di legno delle ferrovie ammucchiate dietro al vecchio forno del Palazzone, a Roccasecca Scalo. Col capo chino ed immersi nella lettura di quelle strisce, la fantasia di noi tutti volava lontano e ci immedesimavamo così tanto nei personaggi dei fumetti da sognare di essere davvero al loro posto. Uno degli eroi più amati era Tex, il mitico Tex Willer, le cui avventure, sempre in compagnia dei suoi pards e dei suoi Navajos, erano ambientate nel Sud degli Stati Uniti, le riarse terre dell’Arizona e del Nuovo Messico. A volte sconfinava verso settentrione, magari inseguendo il terribile Mephisto, suo irriducibile nemico Allora non c’erano limiti agli scenari di quelle fantastiche avventure che si estesero, per l’appunto, fino al grande Nord canadese dove Tex conobbe le Giubbe rosse divenendo particolarmente amico di  Jim Brandon, mitico sergente di quelle straordinarie guardie a cavallo. Era un eroe  talmente bravo, buono ed onesto da raggiungere rapidamente, grazie a queste sue capacità,  il grado di colonnello. Allora più o meno era così, ma anche allora, forse, erano solo fumetti! Ma veniamo alla nostra storia ed al contesto in cui essa si svolse. Occorre tornare indietro nel tempo, fino all’estate del 1959, spensierato periodo durante il quale la nostra immaginazione infantile si alimentava soprattutto attraverso l’infaticabile lettura di Tex, ma anche di altri fumetti  quali, ad esempio,  “Il Grande Blek” o “Capitan Miki”, tanto per citarne alcuni. Questi ultimi, però, avevano una connotazione diversa, più nordica. I loro protagonisti erano per l’appunto Capitan Miki un ranger del Nevada  eroe di mille avventure con i suoi fedelissimi aiutanti il Professor Occultis Salasso e Doppio Rhum, ma non mi pare che avessero mai avuto contatti con le Giubbe rosse, ammesso che ciò possa interessare a qualcuno. Per Blek Macigno ed i suoi compagni, Roddy e il Dott. Occultis, invece, le Giubbe rosse erano solo dei nemici da combattere  che però nulla avevano a che spartire con la mitica polizia canadese. Erano infatti gli odiosissimi componenti delle guarnigioni inglesi che opprimevano i coloni della Nuova Inghilterra.  Anche questo più o meno era così ma, come ho già detto, erano solo fumetti. Quando la lettura di quelle amatissime strisce cessava, magari perché eravamo arrivati alla fine e bisognava attendere una settimana per poter comperare un altro giornaletto, il gioco delle nostre immedesimazioni iniziava.  “Io ero Tex” “Io ero Kit Carson” “Io ero il sergente Preston” “Io ero Tiger Jack” “Io ero …, ero …, ero … qualcun altro!” gridavamo correndo nel campetto d’ erba alta che si estendeva oltre la linea di baracche dei pollai e continuava aperto e libero fino al deposito di legname di Cupone. Proprio nel luogo ora recintato ed occupato da un campo di calcetto, probabilmente regolamentare. Allora nulla era regolamentare, ma tutto si sosteneva e si giustificava grazie alla nostra fantasia infantile. Giocavamo ai cowboy costruendoci pistole finte con forcelle di finocchio selvatico che in quel verde campetto cresceva in abbondanza ed anche i cavalli erano finti,  fatti con gli steli più lunghi e robusti di quel prezioso arbusto. Cavalli che mettevamo tra gambette sempre scorticate e poi via di corsa cercando di imitare il cloppete– cloppete del galoppo, mentre con la bocca facevamo il rumore degli spari. “Io ero …”,  “Io ero …”, “Io ero …” gridavamo a squarciagola finché dalla linea dei pollai non cominciavano a sentirsi i richiami delle mamme. A quel punto, dopo aver fatto finta di non sentire, ma solo per un poco, nascondevamo i nostri preziosi giocattoli e tornavamo in gruppo verso casa cercando di evitare qualche finto scappellotto e di sopportare stoicamente la sequela dei loro rimproveri. “Ma non ti vergogni? E’ questa l’ora di tornare a casa? Ma guarda come sei sudato! E quel ginocchio? Tutto scorticato! Madonna mia, vedrai che stavolta ti viene il tetano. Io non ne voglio sapere niente, stasera racconto tutto a tuo padre e te la vedi con lui!”
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(continua)