La pistola delle Giubbe rosse
Chi sono le Giubbe rosse?
Non è poi così immediato rispondere a questa domanda anche se oggi,
volendo sapere qualcosa al volo su di un argomento qualsiasi, si può
risolvere rapidamente ogni situazione digitando su internet il nome o la
frase che ci interessa. Poi?
Poi occorre districarsi alla benemmeglio tra le migliaia di risposte che
sempre compaiono sul monitor ottenendo, spesso, un risultato abbastanza
prossimo alla realtà.
Anch’io, nella fattispecie, ho digitato Giubbe rosse, ma non è che ne avessi
una reale necessità. So infatti da sempre che questo nome corrisponde alla
mitica polizia a cavallo canadese e mi domando quanti possano davvero non
conoscerle. Con in testa il cappello rigido, rotondo e a larghe tese, la giubba
rossa abbottonata fino al collo e la pistola d’ordinanza chiusa nella fondina
di cuoio, ma assicurata con una cordicella, forse per non perderla durante
le cavalcate a spron battuto attraverso le grandi foreste nordamericane, le
Giubbe rosse sono infatti, a mio giudizio, davvero inconfondibili.
La prima volta che ne ebbi conoscenza fu verso la fine degli anni 50
leggendo i giornaletti con i miei compagni d’infanzia, tutti seduti sulle
traverse di legno delle ferrovie ammucchiate dietro al vecchio forno del
Palazzone, a Roccasecca Scalo. Col capo chino ed immersi nella lettura di
quelle strisce, la fantasia di noi tutti volava lontano e ci immedesimavamo
così tanto nei personaggi dei fumetti da sognare di essere davvero al loro
posto.
Uno degli eroi più amati era Tex, il mitico Tex Willer, le cui avventure,
sempre in compagnia dei suoi pards e dei suoi Navajos, erano ambientate
nel Sud degli Stati Uniti, le riarse terre dell’Arizona e del Nuovo Messico. A
volte sconfinava verso settentrione, magari inseguendo il terribile Mephisto,
suo irriducibile nemico
Allora non c’erano limiti agli scenari di quelle fantastiche avventure che si
estesero, per l’appunto, fino al grande Nord canadese dove Tex conobbe le
Giubbe rosse divenendo particolarmente amico di Jim Brandon, mitico
sergente di quelle straordinarie guardie a cavallo. Era un eroe talmente
bravo, buono ed onesto da raggiungere rapidamente, grazie a queste sue
capacità, il grado di colonnello.
Allora più o meno era così, ma anche allora, forse, erano solo fumetti!
Ma veniamo alla nostra storia ed al contesto in cui essa si svolse.
Occorre tornare indietro nel tempo, fino all’estate del 1959, spensierato
periodo durante il quale la nostra immaginazione infantile si alimentava
soprattutto attraverso l’infaticabile lettura di Tex, ma anche di altri fumetti
quali, ad esempio, “Il Grande Blek” o “Capitan Miki”, tanto per citarne
alcuni.
Questi ultimi, però, avevano una connotazione diversa, più nordica.
I loro protagonisti erano per l’appunto Capitan Miki un ranger del Nevada
eroe di mille avventure con i suoi fedelissimi aiutanti il Professor Occultis
Salasso e Doppio Rhum, ma non mi pare che avessero mai avuto contatti
con le Giubbe rosse, ammesso che ciò possa interessare a qualcuno.
Per Blek Macigno ed i suoi compagni, Roddy e il Dott. Occultis, invece, le
Giubbe rosse erano solo dei nemici da combattere che però nulla avevano a
che spartire con la mitica polizia canadese. Erano infatti gli odiosissimi
componenti delle guarnigioni inglesi che opprimevano i coloni della Nuova
Inghilterra.
Anche questo più o meno era così ma, come ho già detto, erano solo
fumetti.
Quando la lettura di quelle amatissime strisce cessava, magari perché
eravamo arrivati alla fine e bisognava attendere una settimana per poter
comperare un altro giornaletto, il gioco delle nostre immedesimazioni
iniziava.
“Io ero Tex” “Io ero Kit Carson” “Io ero il sergente Preston” “Io ero Tiger
Jack” “Io ero …, ero …, ero … qualcun altro!” gridavamo correndo nel
campetto d’ erba alta che si estendeva oltre la linea di baracche dei pollai e
continuava aperto e libero fino al deposito di legname di Cupone. Proprio
nel luogo ora recintato ed occupato da un campo di calcetto, probabilmente
regolamentare.
Allora nulla era regolamentare, ma tutto si sosteneva e si giustificava grazie
alla nostra fantasia infantile.
Giocavamo ai cowboy costruendoci pistole finte con forcelle di finocchio
selvatico che in quel verde campetto cresceva in abbondanza ed anche i
cavalli erano finti, fatti con gli steli più lunghi e robusti di quel prezioso
arbusto. Cavalli che mettevamo tra gambette sempre scorticate e poi via di
corsa cercando di imitare il cloppete– cloppete del galoppo, mentre con la
bocca facevamo il rumore degli spari.
“Io ero …”, “Io ero …”, “Io ero …” gridavamo a squarciagola finché dalla
linea dei pollai non cominciavano a sentirsi i richiami delle mamme. A quel
punto, dopo aver fatto finta di non sentire, ma solo per un poco,
nascondevamo i nostri preziosi giocattoli e tornavamo in gruppo verso casa
cercando di evitare qualche finto scappellotto e di sopportare stoicamente la
sequela dei loro rimproveri.
“Ma non ti vergogni? E’ questa l’ora di tornare a casa? Ma guarda come sei
sudato! E quel ginocchio? Tutto scorticato! Madonna mia, vedrai che
stavolta ti viene il tetano. Io non ne voglio sapere niente, stasera racconto
tutto a tuo padre e te la vedi con lui!”
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