Purtroppo quella sera servirono per cena uova sode con contorno di fagiolini
lessi, due alimenti che ho sempre aborrito, per lo meno da piccolo, e quindi
lasciai tutto sul tavolo rimanendo a digiuno. Non pensai neanche di chiedere
qualcos’altro, probabilmente me l’avrebbero anche dato, ma non lo feci
preferendo continuare a cantare, ridere e scherzare.
La fame però era tanta e forse fu proprio per questo che mi ricordai di aver
ritrovato, nella valigetta di cartone, un panino, di quelli che mi aveva preparato
mamma per il viaggio di andata e che era avanzato. Due fette di pane
casereccio, contenenti una cotoletta panata, rimaste tutto il tempo in quel
camerone che di giorno diventava rovente.
Non so proprio come feci a divorare quella cosa appena rientrato in camerata, e
a non capire il pericolo né sentire il lezzo che, evidentemente, dopo tanto tempo
doveva pur emanare. Ma tant’è!
Anche il viaggio di ritorno fu fantastico, lo fu tanto sul trenino che somigliava
alla carrozza di Pinocchio quanto sugli altri due che mi avrebbero riportato a
casa.
Una sola cosa stava cambiando: col passare delle ore sentivo caldo, sempre più
caldo, bevevo una quantità incredibile di acqua finché, arrivato alla stazione di
Roccasecca, ardevo letteralmente dalla febbre.
Papà e mamma mi presero in braccio e mi portarono a casa di corsa; non
ricordo altro di quella triste sera.
Non ricordo molto neanche dei giorni successivi, so solo che dormii sempre nel
loro lettone, dalla parte di mamma, e, quando aprivo gli occhi, la intravedevo
seduta accanto a me, che mi guardava. Ogni sera, poi, mi sembrava anche di
riconoscere il Dottor Gazzelloni che, dopo avermi visitato, parlava
sommessamente con i miei genitori.
Passai giorni e giorni tra la vita e la morte, senza potermi alimentare, mentre
papà e mamma si alternavano accanto a me e, pur avendo percezione delle
loro sagome, sedute sulle poltroncine accanto al letto, non riuscivo a parlare
loro né ad ascoltarli. Nulla è rimasto nella mia memoria di quel periodo, ricordo
solo che durante quelle interminabili ore, passate con gli occhi sbarrati puntati
al soffitto, feci dei sogni fantastici.
Sognavo di essere entrato in un’altra dimensione, quella dei miei giornaletti
preferiti, che i miei eroi mi avevano accolto tra loro e partecipavo alle loro
avventure perché anch’io avevo, finalmente, una pistola vera, la pistola della
Giubbe rosse!
Non so esattamente quanto sia durata la mia lotta per la sopravvivenza, una
settimana, forse due, non so. Alla fine però ce la feci, e riuscii a venirne fuori
forse più per le preghiere di mamma che per gli effetti dei farmaci proprio
quando tutti, ormai, mi avevano dato per spacciato.
Ricordo infatti la prima volta che rimisi il naso fuori di casa, facevo veramente
fatica a stare in piedi ed una signora, vedendomi, non poté trattenersi dall’
esclamare: “Madonna mia Renzo, tornatene subito alla casa, che me pari
proprio a nu cadavere!”
Finalmente però la Festa della stazione era arrivata e, con essa anche le
bancarelle letteralmente ricoperte di giocattoli, dolciumi e di tutte le cose
bellissime che era possibile guardare e toccare solo in quell’occasione.
Tra i giocattoli più a buon mercato c’erano delle pallette di stoffa colorata, tanti
spicchi cuciti assieme, piene di segatura e con un elastico collegato ad un
estremo.
Con un poco di destrezza era possibile farle andarle avanti e indietro di modo
che prendessero velocità e forza per poi colpire qualche malcapitato da lontano,
quando meno se l’aspettava. Poi l’elastico però si rompeva e per continuare a
giocare bisognava aggiustarlo legando i pezzi, poi si rompeva di nuovo e si
rilegava, poi di nuovo ancora e si andava avanti finché la stoffa della palletta
non si scuciva e la segatura non si perdeva tutta. Allora il gioco era terminato.
Non comperai la pistola della Giubbe Rosse quell’anno, e nessuno, mai, la
comperò per me.
Un bel giorno, la Festa della Stazione doveva essere appena iniziata, papà si
presentò a casa tutto contento e mi si avvicinò con un pacchettino in mano. Non
capivo proprio cosa potesse essere ma bastò poco a scoprirlo.
Era una pistola a ditalini molto bella, forse troppo. Tutta cromata, con un
tamburo a dieci colpi ed un calcio di plastica bianca che poteva sembrare
d’avorio sarà costata, forse, anche il doppio di quella delle Giubbe Rosse e
senz’altro nessuno dei ragazzini del Palazzone ne aveva una uguale.
Ma non era quella che io avevo così a lungo e così intensamente desiderato.
Ringraziai comunque papà per il regalo, lo feci fingendo una felicità che non
provavo, e cercai di non pensarci più. Con le poche forze che andavo via via
riprendendo ricominciai i giochi con i miei compagni, ognuno con la propria
pistoletta in pugno.
Passò così anche la Festa della Stazione del 1959, e fu una bella Festa, con
molte bancarelle ed una quantità enorme di gente venuta ad assistere allo
spettacolo musicale che, nella serata finale, si tenne sul grande palco eretto al
centro della piazza, proprio davanti alla Stazione.
Forse fu proprio in quell’anno che venne a cantare a Roccasecca Scalo
addirittura Gloria Cristian, che proprio nel 1959 aveva lanciato Cerasella e che,
due anni prima, aveva raggiunto fama internazionale con Casetta in Canadà,
ma non ne sono sicuro. Comunque fu una festa memorabile.
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La pistola delle Giubbe rosse 3/4